
Partecipare sì, ma da soli. Le conseguenze politiche della trasformazione post-liberale

Per gentile concessione di “Vita e Pensiero”, pubblichiamo di seguito l’articolo del professor Damiano Palano contenuto nel numero di novembre-dicembre 2024 della rivista, uscito mercoledì 15 gennaio.
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Il 13 marzo 2020 è probabilmente una data che i più hanno dimenticato. Meno di tre settimane prima erano stati individuati in Italia i primi casi di Covid-19 e domenica 8 marzo era scattato a livello nazionale quello che venne subito chiamato “lockdown”. Stravolti dall’emergenza sanitaria, i palinsesti televisivi e la carta stampata avevano immediatamente concentrato la loro attenzione sulla diffusione del virus e molti attendevano quotidianamente il bollettino delle autorità sanitarie. La pandemia non pareva conoscere barriere e, con l’obiettivo di contrastare l’atmosfera cupa di quei giorni, sulle chat e sui social network iniziò a circolare la proposta di una sorta di inedito flash mob, che ovviamente, date le misure sanitarie, non poteva avere luogo nelle piazze. Alle 18 del 13 marzo, in tutte le città d’Italia molti balconi si affollarono e le parole scritte da Goffredo Mameli, di solito rispolverate solo in occasione delle partite della nazionale di calcio, risuonarono in molte strade.

L’euforia dell’“Italia dei balconi” fu presto dimenticata. Ma, osservata a distanza di anni, quella effimera manifestazione di unità nazionale può oggi essere considerata come un esempio eclatante della trasformazione che ha investito il nostro modo di partecipare alla vita pubblica. Quando uscirono sui balconi per testimoniare il loro sostegno alla lotta contro il virus combattuta negli ospedali, gli italiani parteciparono davvero a una manifestazione collettiva. Ebbero probabilmente la sensazione di essere parte di una “comunità”. Forse alcuni provarono persino l’ebbrezza che talvolta produce la partecipazione a un evento collettivo.
Se il 13 marzo 2020 gli italiani parteciparono dunque effettivamente a una sorta di flash mob, lo fecero però, paradossalmente, da soli. Fecero cioè tutto questo rimanendo chiusi nelle loro case, affacciandosi verso l’esterno per qualche minuto e rientrando poco dopo tra le pareti domestiche. Per accomodarsi di nuovo sulle poltrone cui la pandemia li aveva inchiodati, o per postare magari su qualche social network l’immagine dei balconi patriottici. E, dunque, per tornare in qualche modo, ancora una volta, a partecipare. Ma restando sempre, invariabilmente, da soli.
Requiem per la partecipazione?
Nel 1995 Robert D. Putnam pubblicò un famoso articolo in cui sosteneva che negli Stati Uniti, a partire dagli anni Cinquanta, si era registrato un declino pressoché costante di ciò che definiva come capitale sociale: l’insieme delle reti fiduciarie che, all’interno delle comunità, facilitano la cooperazione. Un esempio del declino era offerto dal mutamento nelle modalità in cui gli americani giocavano a bowling. Il numero di giocatori era aumentato, ma si tendeva ormai a praticare questo sport da soli, mentre in passato lo si faceva all’interno di leghe strutturate.
Il caso del bowling era naturalmente solo una delle molte manifestazioni del calo costante della partecipazione ad attività collettive, come associazioni religiose, organizzazioni di volontariato, associazioni civiche. Le cause, secondo il politologo, andavano individuate a diversi livelli: nei cambiamenti demografici, nella trasformazione dei nuclei familiari, nella maggiore mobilità geografica degli individui; nello sviluppo tecnologico, che aveva favorito una consistente “individualizzazione” dello svago (principalmente grazie alla diffusione della tv); e anche nelle trasformazioni del lavoro, che avevano ridotto il tempo disponibile per attività collettive.
Le conseguenze del declino implicavano invece un rischio per la democrazia. Perché secondo Putnam (come aveva dimostrato in una ricerca ventennale sulle regioni italiane), una buona dotazione di capitale di fiducia e reciprocità rappresentava il presupposto del buon rendimento delle istituzioni e, dunque, della stabilità della democrazia.
Dall’“io” al “noi” e viceversa
Più di recente, Putnam ha ripreso queste ipotesi, analizzando le trasformazioni della società americana dalla fine dell’Ottocento fino a oggi. In particolare, sulla base dei dati, il politologo individua un lungo ciclo storico: la prima fase vede una transizione dall’“io” al “noi”, culminata negli anni Sessanta; la seconda, che giunge fino al presente, è invece contrassegnata da una nuova e costante regressione dal “noi” all’“io”, ossia verso forme di spiccato individualismo.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo, in quella che Mark Twain aveva ironicamente definito l’“Età dell’oro”, la società americana era stata segnata da un travolgente individualismo, cui però aveva fatto seguito – durante il New Deal, la Seconda Guerra mondiale e il primo ventennio post-bellico – una notevole crescita di solidarietà, cooperazione e benessere collettivo.
Dalla metà degli anni Sessanta, le cose iniziarono tuttavia a mutare costantemente, facendo aumentare le diseguaglianze economiche, la polarizzazione politica e l’individualismo, oltre che disgregando i depositi di capitale sociale. Nel corso dell’ultimo mezzo secolo, secondo Putnam gli Stati Uniti hanno dunque sperimentato «un declino dell’uguaglianza economica, il deterioramento della tendenza al compromesso nello spazio pubblico, un tessuto sociale sfilacciato e una discesa nel narcisismo culturale» (R. Putnam, Comunità contro individualismo, il Mulino, 2023).
Oltre l’“effervescenza”, niente?
Come spesso avviene, i dati su cui Putnam poggia la sua analisi possono essere contestati. Non è inoltre detto che il quadro che delinea possa dire qualcosa di rilevante anche per le società europee. Ciò nonostante, alcuni degli elementi che Putnam coglie sono agevolmente riconoscibili anche nel Vecchio Continente, soprattutto per quanto concerne alcune forme di partecipazione politica, come l’affluenza alle urne, l’iscrizione a partiti e la fiducia verso la classe politica.
Anche questi dati possono però essere interpretati in vari modi. I pessimisti possono infatti vedere nel calo delle percentuali di votanti e degli iscritti a partiti delle testimonianze inequivocabili di una generale crisi della partecipazione. Con uno sguardo più ottimista, potremmo invece osservare che tali fenomeni si accompagnano alla richiesta di strumenti alternativi di partecipazione democratica, o che, al declino delle forme di partecipazione convenzionali, si accompagna una crescita di forme non convenzionali e meno strutturate.
Negli ultimi anni i paesi occidentali sono stati d’altronde attraversati da non poche mobilitazioni, dai Fridays for Future ai Gilet jaunes, al Black Lives Matter o al #metoo. Pur trovando nei social media un canale di proliferazione e coordinamento, tutti questi movimenti – tra loro estremamente differenti – hanno avuto ricadute nella “vita reale” e hanno dato vita a manifestazioni non molto diverse da quelle novecentesche. Senza eccezioni, nessuno di questi movimenti ha però dato origine a organizzazioni strutturate, che – trascorsa la fase di “effervescenza collettiva”, come la definiva Durkheim – abbiano cercato di “istituzionalizzare” l’esperienza della mobilitazione.
Il punto probabilmente non sta così tanto nell’assenza di partecipazione, quanto nel fatto che la partecipazione prende forme diverse dal passato. E proprio questo aspetto è con ogni probabilità connesso a una trasformazione cominciata mezzo secolo fa, più o meno nella fase a cui Putnam fa risalire i primi segnali della nuova transizione verso l’individualismo.
Una smobilitazione totale
In uno dei suoi saggi più celebri, Ernst Jünger fissò i tratti essenziali del mutamento innescato dalla Prima Guerra mondiale. Secondo Jünger, lo sforzo bellico non si era infatti limitato alla mobilitazione delle truppe, ma aveva comportato una riorganizzazione completa della vita sociale, capace di proiettare tutte le energie disponibili nella direzione del conflitto armato. La «mobilitazione totale», come la definiva Jünger, aveva così segnato l’inizio di un’epoca in cui le masse erano diventate le vere protagoniste.
A poco meno di un secolo dalla pubblicazione del saggio di Jünger, forse oggi possiamo riconoscere nella storia delle società occidentali una parabola in fondo molto simile a quella individuata da Putnam. Il periodo compreso tra la fine della Prima Guerra mondiale e la metà degli anni Settanta fu davvero una stagione di mobilitazione totale, non solo a livello militare, ma anche sotto il profilo economico e politico. Le gigantesche fabbriche fordiste furono lo strumento principale con cui giungere allo sviluppo. Le grandi organizzazioni politiche, disciplinate all’interno come efficienti macchine da guerra, divennero l’unico canale con cui le “masse” potevano sperare credibilmente di conseguire i loro obiettivi. E, dal punto di vista economico, l’integrazione delle organizzazioni collettive nella programmazione dello sviluppo rappresentò il modo con cui poter superare le crisi.
A partire dalla metà degli anni Settanta, si può invece far risalire l’avvio di un processo inverso, che ha spinto progressivamente la società verso una radicale “smobilitazione”. Se la mobilitazione totale aveva dato origine all’era delle masse, la smobilitazione contemporanea sembra al contrario indicarne il declino. Iniziarono a essere smantellati i grandi stabilimenti che avevano contraddistinto il paesaggio industriale del Novecento, con l’obiettivo di rendere la produzione più “flessibile” dinanzi alle richieste mutevoli del mercato, ma anche per superare la resistenza di “masse” rivelatesi sempre meno docili. E, soprattutto, l’intera società prese a modificare i propri tratti, molto prima che la digitalizzazione facesse compiere al processo di individualizzazione un balzo ulteriore.
Il secolo solitario
In The Lonely Century (Crown, 2021), Noreena Hertz sostiene che, nel XXI secolo, abbiamo fatto ingresso in un’era segnata da un’epidemia globale di solitudine, che rende l’isolamento una condizione diffusa e per molti versi sistemica. Secondo l’economista britannica, le cause di un fenomeno tanto pervasivo vanno ricercate nel neoliberismo, che ha diffuso una cultura della competizione e dell’individualismo, nella disgregazione delle strutture comunitarie tradizionali (le famiglie allargate, le organizzazioni religiose, eccetera) e naturalmente nella rivoluzione digitale che nell’ultimo ventennio ha travolto le nostre esistenze.
L’epidemia di solitudine ci pone effettivamente di fronte a un cambiamento radicale, dinanzi al quale siamo probabilmente impreparati. Ma anche le sue conseguenze strettamente politiche sono dirompenti. Non tanto perché la società di oggi sia popolata da automi apatici, da un homo democraticus totalmente passivo, o da cittadini sempre più simili a zombie incapaci di qualsiasi ruolo attivo. Quanto perché la spinta a partecipare, la protesta e le ondate di indignazione prendono forma in una società “strutturalmente” modificata rispetto al passato.
La stagione politica che viene definita come “neoliberale”, ha osservato a questo proposito Filippo Barbera, «si è accompagnata alla contrazione degli spazi condivisi che danno forma alle nostre interazioni come cittadini quotidiani», come «persone che compiono azioni di cittadinanza in spazi pubblici concepiti come infrastrutture sociali». Una simile contrazione ha oscurato i nessi che legano «la dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica e la genesi del “noi”» (Le piazze vuote, Laterza, 2023). E ciascuno di noi tende così a prendere parte a discussioni, a informarsi, a interagire con gli altri, senza davvero condividere stabilmente uno spazio comune.
La dispersione dei simboli
Se la contrazione degli spazi condivisi ha forse davvero eroso le condizioni in cui un “noi” può prendere corpo, va probabilmente considerato anche un ulteriore aspetto, che riguarda la trasformazione dei rapporti fiduciari. Nel dibattito sulla cosiddetta “post-verità” si è spesso sottolineato come la riduzione dei costi di produzione e distribuzione di opinioni e notizie abbia favorito la crisi dell’autorevolezza scientifica e politica. Più che il venir meno della fiducia, ha avuto luogo una sua redistribuzione in senso “orizzontale”, in virtù della quale molti ritengono più affidabili le informazioni condivise da persone vicine, come amici o comunità online, rispetto a quelle provenienti da fonti istituzionali. Una trasformazione del genere è emblematica di un fenomeno altrettanto importante: la difficoltà sempre maggiore delle organizzazioni – tra cui, in primo luogo, i partiti politici – di conservare un (relativo) monopolio delle risorse simboliche.
La “crisi” del partito di integrazione di massa novecentesco, risultato di una profonda trasformazione sociale, può essere considerata anche come il riflesso della difficoltà che le grandi organizzazioni hanno oggi di conquistare e conservare a lungo il monopolio delle risorse simboliche: le risorse connesse all’identità etico-sociale, da cui cioè dipende il riconoscimento degli individui e che consentono di spiegare perché – all’interno di un gruppo – gli individui sono disponibili a sacrificare tempo ed energie per una causa “comune”, a obbedire alle direttive di un vertice (benché talvolta non le si condivida), a prendere parte a rituali che cementano l’identità collettiva.
Come si è visto per la partecipazione, il fatto che oggi i partiti perdano iscritti, che tendano ad avere identità “liquide” e che l’identificazione partitica si indebolisca non significa che vengano completamente meno, nelle nostre società, i sentimenti di appartenenza e le identità collettive, o che le risorse simboliche perdano la loro importanza. Piuttosto, questi processi possono essere interpretati come la conseguenza della proliferazione di meccanismi di riconoscimento più orizzontali e fluidi. Oltre che, naturalmente, come una manifestazione del fatto che i vertici dei partiti – per quanto siano dotati spesso di grandi risorse economiche e nonostante siano frequentemente installati dentro le istituzioni – dispongono di un controllo delle risorse simboliche quasi irrilevante, se confrontato con quello dei grandi partiti novecenteschi, in grado di imporre una severa disciplina tra i propri membri, di impedire che il dissenso fuoriuscisse da un perimetro spesso molto circoscritto, di sanzionare comportamenti disonorevoli.
Il ruolo dei partiti nella democratizzazione
Il venir meno del monopolio delle risorse simboliche potrebbe essere un processo congiunturale, ma sotto il profilo delle dinamiche politiche non sembrano al momento emergere segnali di un’inversione di tendenza. E proprio per questo vale la pena interrogarsi sulle conseguenze che questa trasformazione comporta sullo stato delle nostre democrazie e sulle loro prospettive future.
Per molti versi, le istituzioni democratiche che conosciamo, oltre a essere il risultato di un lunghissimo processo storico, hanno assunto la loro fisionomia odierna proprio nella stagione della mobilitazione totale. Più che essere stato un risultato di ciò che si definisce di solito come l’“ingresso delle masse” sulla scena politica, la democratizzazione novecentesca è stata resa possibile anche dalla capacità dei partiti di massa di trasformare in capitale politico le richieste provenienti dalla società.
Proprio grazie al monopolio delle risorse simboliche su cui potevano contare, quelle organizzazioni furono infatti in grado di “accumulare” le spinte conflittuali che provenivano “dal basso”. Pur senza escludere che i conflitti fuoriuscissero talvolta dall’alveo delle istituzioni, resero possibile che le richieste di cambiamento, invece di tradursi in contrapposizioni violente, fossero trasformate in una sorta di capitale politico da porre sulla bilancia del potere. E grazie al fatto di essere “monopolizzate”, le risorse simboliche potevano controbilanciare il peso delle risorse economiche e di quelle coercitive, diventando così il presupposto per giungere ad armistizi e compromessi.
Che fine hanno fatto gli spazi comuni
Ricostruendo l’andamento nel tempo delle dotazioni di capitale politico, forse si potrebbe riconoscere una parabola analoga a quella tracciata da Putnam per la società americana. Più che la dotazione di capitale sociale, e dunque la diffusione di reti di fiducia e reciprocità, in questo caso il dato saliente sarebbe però rappresentato dal variabile grado di concentrazione e dispersione delle risorse simboliche. Da un certo punto di vista, possiamo senz’altro riconoscere che il logoramento della capacità delle grandi organizzazioni di monopolizzare le risorse simboliche ha sancito la fine dei “partiti-caserma” e delle rigide contrapposizioni ideologiche, e che in questo modo si sono aperti spazi di libera espressione e di partecipazione al di fuori delle appartenenze. Da un altro punto di vista, non possiamo però non cogliere come proprio la dispersione delle risorse simboliche, diffuse nei mille reticoli che attraversano le nostre società, faccia venir meno uno dei pilastri su cui si sono fondate, a partire dalla mobilitazione totale, le istituzioni democratiche.
Forse la stagione di ciò che spesso si definisce neoliberalismo si è conclusa e siamo già entrati in una fase “post-liberale”, ma gli effetti della smobilitazione totale rimangono ben visibili nel panorama delle società occidentali. L’epidemia di solitudine di cui parla Hertz, se non ha dissolto ogni forma di appartenenza collettiva, ha tuttavia modificato effettivamente il nostro modo di vivere insieme. Forse non siamo tutti diventati più individualisti e narcisisti, come sostiene Putnam guardando alla società americana, ma è piuttosto evidente che davvero tendiamo sempre più spesso a concepire il nostro “essere parte” al di fuori di una stabile cornice condivisa, senza rituali collettivi e rilevanti strutture organizzate.
E proprio per questo, la domanda che ci dobbiamo porre non riguarda soltanto le prospettive che le nostre democrazie hanno di far fronte a poteri economici sempre più pervasivi e capaci di controllare i flussi di un mondo globale. Perché dovremmo soprattutto chiederci su quali basi poggino ancora le istituzioni democratiche in società in cui – un po’ come avvenne quando il 13 marzo 2020 l’“Italia dei balconi” intonò l’inno di Mameli – si tende sempre di più a partecipare, o ad avere la sensazione di partecipare, senza condividere davvero spazi comuni. E, in fin dei conti, partecipando, quasi sempre, da soli.
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Damiano Palano, autore di questo articolo, è direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e di Aseri (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali). Tra le sue pubblicazioni recenti, “Animale politico” (Scholé, 2023) e “Politica” (Scholé, 2024). Per Vita e Pensiero ha da poco curato il volume “Le forme della realtà. Una mappa dei realismi politici”.
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