Nick Cave e la scoperta della “Gioia”
«Mi ha molto colpito una canzone chiamata Joy dove canta: “Abbiamo provato tutti troppo dolore, ora è il momento della gioia”. Tra me e me ho pensato: già, è proprio così». Queste le parole di Bob Dylan su X, dopo aver assistito al concerto parigino di Nick Cave il 19 novembre scorso. L’uscita pubblica di “His Bobness” sarebbe già da sola una notizia. Ma al di là dello spasso che è «questo nuovo Dylan twittarolo» di cui ha amabilmente scritto Claudio Todesco per Rolling Stone, ad essere intronizzata e messa sugli scudi è la “signora Gioia”. Una gioia ritrovata, che nella vita di Nick Cave arriva da lontano.
Prima però c’è da godersi la risposta del cantautore australiano al tweet di Bob Dylan, capace da sola di raccontare il suo provvidenziale e benedetto anticonformismo.
Una bella sorpresa dopo la «twitterectomia» di massa
Interpellato da un fan, Nick Cave ha innanzitutto spiegato che non sapeva minimamente che Dylan – di cui è ovviamente un ammiratore – fosse presente al concerto. Poi l’ironico accenno al social in questione e al piccolo ma rumoroso esodo anti Musk in corso:
«Sono contento di vedere Bob su X, mentre molti a sinistra hanno fatto una twitterectomia trasferendosi su Bluesky [nuova piattaforma social statunitense, ndr]. M’è sembrata una cosa perversa, ma in modo ammirevole, alla Dylan».
Infine Cave torna sul punto: la gioia.
«Penso davvero che sia il momento della gioia e non del dolore. C’è stato un tale eccesso di disperazione per le elezioni che non si poteva fare a meno di domandarsi se la politica non si fosse inghiottita ogni cosa».
L’ossessione per i leader politici ha fatto sì – scrive il cantautore – che venissero
«innalzate barriere che ci hanno impedito di sperimentare la presenza di qualcosa che assomigliasse lontanamente allo spirito, al sacro o al trascendente, il luogo santo dove risiede la gioia. Sono orgoglioso di essere stato in tour coi Bad Seeds e di aver offerto, con un concerto rock, un antidoto a questa disperazione».
«Sto restituendo qualcosa»
Ma chi è quest’uomo che in poche battute distrugge gli scandalizzati di professione, fa sold out a ogni tappa del suo Wild God tour (compreso quello del Forum di Assago https://www.facebook.com/watch/?v=505831822265819, unica data italiana della sua tournée mondiale), vede sua maestà Bob Dylan arrivare ai suoi concerti senza saperlo e discetta di sacro (sapendolo fare) non appena può?
Nick Cave – australiano, classe 1957 – è un rocker elegante dentro e fuori (canta in giacca e cravatta come faceva Leonard Cohen), che nel giro di una manciata d’anni ha subìto dalla vita una doppia violentissima prova: i lutti improvvisi dei suoi due figli. Il più piccolo, Arthur, scomparso nel 2015 a soli 15 anni, è precipitato da una scogliera vicino a Brighton. Pochi anni dopo è morto anche il figlio maggiore, Jethro Lazenby, di 31 anni, attore e modello cui era stata diagnosticata una schizofrenia.
Per metabolizzare tutto ciò, ma anche per lasciarsi definitivamente alle spalle un passato di eroina e alcol, il “Bardo di Melbourne” nel 2020 affiderà il suo cuore spezzato alle cure di Red Hand Files, newsletter totalmente open in cui molte persone, suoi fan ma non solo, condividono problemi e domande. Qualcuno l’ha definita una forma di “direzione spirituale” tra Cave e il suo pubblico. «Puoi chiedermi qualsiasi cosa. Non ci sarà alcun moderatore. Sarà solo tra me e te. Vediamo quello che avviene. Con amore, Nick». È con queste parole che il rocker si è impegnato a rispondere senza filtri e tutta la dedizione possibile alle mail che invita a spedire.
L’incredibile aiuto reciproco sprigionato da questi carteggi, virtuali e concretissimi insieme, Cave lo ha raccontato al New York Times. Ricorda il musicista in una lunga intervista a David Marchese:
«Quando è morto Arthur sono stato risucchiato nel luogo più oscuro che si possa immaginare, era praticamente impossibile uscire da quello stato di disperazione. So che può sembrare melenso, ma ce l’ho fatta grazie alla reazione delle persone che continuavano a scrivermi cose tipo: “È successo anche a me”. È stato tremendamente toccante».
Per poi aggiungere:
«Il sostegno del pubblico mi ha salvato. Il mio pubblico mi ha aiutato tantissimo e oggi quando mi esibisco sento che sto restituendo qualcosa».
Lo “scontro” con ChatGpt
Su Red Hand Files, forum che prende il nome dal Paradiso perduto di Milton, si parla di tutto. Soprattutto di umanità, di come essere persone migliori. Di conseguenza, anche di tutto ciò che è a rischio di allontanare dal cuore delle cose. L’intelligenza artificiale è un tema su cui il cantautore è tornato spesso, specie dopo che un fan neozelandese di nome Mark, utilizzando ChatGpt, gli ha inviato un brano espressamente «in stile Nick Cave», chiedendogli un parere. La brillante risposta del rocker – un perenne invito a restare umani contro ogni pericolo di “cosificazione” – rivela anche la massima cura per ogni persona che gli scrive. Ecco le sue parole per Mark:
«In futuro ChatGpt potrà forse creare una canzone indistinguibile, in superficie, da una umana, ma sarà per sempre una replica, qualcosa di grottesco. Le canzoni nascono dalla sofferenza e gli algoritmi, per quanto ne so, non sono in grado di predire la complessa lotta dell’uomo. I dati non soffrono. […] La malinconia del ruolo di ChatGpt è quella di essere destinato a imitare un’esperienza umana che non potrà mai vivere, e non importa affatto quanto la stessa esperienza umana verrà in futuro svalutata».
Nel segno di una sincerità sempre attenta a non ferire nessuno, Cave ha poi così concluso la chiacchierata:
«Potrebbe sembrare che la stia prendendo un po’ troppo sul personale, ma sono un cantautore e scrivere è un atto in cui bisogna metterci coraggio e sangue. Solo così si crea qualcosa di nuovo. C’è bisogno estremo di umanità. […] Mark, grazie per la canzone, ma con tutto l’amore e il rispetto del mondo, è una merda, una presa in giro grottesca di cosa significa essere umani. Non mi piace questa canzone, ma rileggendo c’è un verso che mi parla. “Ho il fuoco dell’inferno negli occhi”, dice la canzone “in stile Nick Cave”, e effettivamente ha ragione. Ho il fuoco dell’inferno negli occhi, è quell’inferno è ChatGpt».
L’intervista con Rowan Williams
Wild God è forse il primo album a non essere «guidato da un senso di perdita», come ha rivelato Cave in una recente intervista, spiegando anche che «la musica e più in generale l’arte ci ricordano che siamo capaci di creare cose straordinarie rispetto a quanto c’è di brutto e storto della vita». A riprova di ciò, Wild God, suo diciottesimo album, è un disco solare, perfetto per essere eseguito dal vivo, con quella calda interazione fatta di strette di mano e abbracci che l’australiano ha sempre cercato dal suo pubblico.
Eppure sono proprio il lutto, il dolore, la fede, Dio, la pietra angolare degli ultimi anni di vita del cantautore. Sul Times del 4 marzo 2023, Rowan Williams, ex arcivescovo di Canterbury, nel cappello a un’intrigante intervista fatta al cantautore, racconta di averlo incontrato «in una sagrestia polverosa di una chiesa al centro di Londra», e che per parlare si sono seduti su «sedie di legno dure, armadi, scope e secchi sparsi qua e là». Un posto solo in apparenza inadeguato, visto che Nick Cave, scrive il reverendo Williams, «cresciuto nella città australiana di Wangaratta, da ragazzo ha cantato nel coro della sua cattedrale, quella della Santissima Trinità, sorprendendo poi il suo pubblico, per tutta la sua carriera, con testi saturi di Dio ed echi della Bibbia. Per cui – sedie inospitali a parte – lui è tutt’altro che un estraneo in questa sagrestia».
«Mi rifiuto di sottomettermi al mondo»
La convinzione dell’emerito di Canterbury, quella per cui «la fede di Cave non è quella di un uomo che cerca scorciatoie», è corroborata dalle confessioni che il cantautore gli concede sul più blasonato quotidiano inglese:
«L’audacia spirituale nata in me alla morte del figlio Arthur mi fa vivere una sorta di rifiuto sconsiderato di sottomettermi al modo di pensare del mondo».
Per questo l’autore di The Boatman’s Call – album in cui Cave esorta ad ascoltare il richiamo di Gesù, l’uomo della barca (“the boatman”) – dopo tanto navigare confessa a Williams di essersi «naturalmente ritrovato a casa, nella Chiesa cattolica». Confida il cantautore all’arcivescovo:
«Ho preso atto che faccio parte di un vasto fiume di sofferenza. È stato scioccante scoprire che la mia tragedia era in un certo senso “ordinaria”. Mi sono sentito parte di qualcosa. Qualcuno lo ha definito “il club in cui nessuno vuole essere”. Sono diventato invece una persona più completa, pienamente realizzata, al contrario del passato, in cui la mia personalità era solo parzialmente formata, come frammentata».
«Nick Cave? Per me è ateo»
L’autore delle musiche per The Road (film tratto dall’omonimo romanzo del suo amato Cormac McCarthy); l’artista che nel capolavoro di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino canta, soffre e si agita sul palco di un fumoso locale punk, forse ha il diritto di apparire qualche volta sibillino, tanto è vero che c’è chi ha azzardato per Nick Cave prospettive aperte, controverse. Uno di questi è il passionista Massimo Granieri, che sull’Osservatore Romano si è occupato più volte del cantautore (qui e qui). Cambierà parzialmente idea, ma in una vecchia intervista ad Avvenire Granieri “psicoanalizza” spiritualmente Cave tracciando per lui una pista inedita: «Dal mio punto di vista, Nick Cave è profondamente ateo, rimane cioè dentro la sua laicità. Come sempre è ossessionato dalla Bibbia, affonda nelle Sacre Scritture, usa il simbolismo religioso per raccontare la sua storia personale. I suoi ultimi lavori, in particolare sono intrisi di dolore personale per la perdita del figlio, Cave ha bisogno fisico, fortissimo di qualcuno che traduca questa sofferenza e allora quale mezzo migliore se non la sacra scrittura? Vuole riscattarsi dal dolore ma la forza la trova dentro di sé, non al di fuori di sé. E questo è un atteggiamento profondamente laico, che esprime poca fiducia verso un aldilà che non riesce a definire. Come un figlio che va in cerca di suo padre ma non riesce assolutamente a raggiungerlo. Certo, il discorso con Dio rimane sospeso, è una partita ancora aperta».
L’urgenza di «portare la gioia»
Che la partita di Cave con Dio sia ancora aperta lo dice anche il suo modo di lasciarsi alle spalle l’uomo vecchio. Esattamente come Giovanni Lindo Ferretti, che nella Berlino dei primi anni Ottanta ha frequentato lo stesso club dell’australiano, anche per quest’ultimo un certo tipo di critiche (sempre le stesse!) non sono mancate. «Gioia, amore, pace. Che vomito! Dove sono finite la rabbia, la collera, l’odio? Ultimamente leggere i tuoi scritti è un po’ come ascoltare un vecchio predicatore che blatera durante la messa domenicale». La rabbia di Ermine su Red Hand Files, candido forum fortissimamente voluto da Cave, riassume bene la posizione di certi vecchi fan.
Ma ancora una volta il “sermone” con cui Nick Cave risponde (utilizzando finanche il corsivo a mo’ di sottolineatura) trasuda sincerità, verità, pathos:
«Le cose sono cambiate dopo la morte del mio primo figlio. Io sono cambiato. Nel bene e nel male, la rabbia di cui parli ha perso ogni fascino ai miei occhi e sì, come dici tu, forse sono diventato un “hippie da cartolina”. L’odio non m’è più sembrato tanto interessante, tutto qui. Mi sono liberato di quei vecchi sentimenti come uno strato di pelle di cui disfarsi. Erano a loro modo, quelli sì, vomitevoli».
Tornando all’uomo vecchio uomo ormai seppellito, Cave continua:
«Sembrava nobile essere incasinato, incazzato col mondo, sprezzante nei confronti della gente […]. Disprezzare la bellezza, disprezzare la gioia, disprezzare la felicità degli altri. Alla fine questo comportamento m’è sembrato, come dire, veramente stupido».
Nella lunga risposta all’ex fan, il rocker australiano da una parte descrive con apparente normalità quello “svuotamento” caro ai monaci orientali, quella kénosi frutto di un dolore vissuto con misteriosa eleganza, dall’altra sembra rimarcare l’intuizione contenuta nel tweet di Dylan («ora è il momento della gioia»). Conclude Cave:
«Quand’è morto mio figlio ho dovuto affrontare un dolore autentico e senza alcuno sforzo quella posa di disprezzo nei confronti del mondo ha cominciato a traballare per poi crollare. Ho cominciato a capire quanto precarie sono le cose del mondo […]. Improvvisamente ho sentito l’urgenza di dare una mano a questo bellissimo, terribile mondo, l’urgenza di portare un po’ di gioia, al posto di limitarmi a denigrarlo compiacendomi del mio giudizio».
Uno strano ateo s’avanza, gridando «Joy!».
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