Ne L’uomo che fu giovedì Chesterton dice che il modo migliore per nascondere un complotto è progettarlo alla luce del sole. E racconta di una setta anarchica che si riunisce sulla terrazza di un bar dove “en plein air” discute dell’attentato che sta pianificando. La vicenda è talmente esplicita da sembrare paradossale, così che nessuno vi crede. Che Mario Monti e la sua Scelta civica, con annessi Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, si preparino a un’alleanza con la coalizione di sinistra Bersani-Vendola-Nencini, che molto probabilmente vincerà le elezioni, è nella logica dei fatti, oltre che nelle intenzioni (dissimulate ma non troppo) dei protagonisti di quello che una volta si sarebbe chiamato l’inciucio, termine evidentemente giudicato troppo popolare, se non populista, per i corifei dell’aplomb e della credibilità del premier bocconiano ed europeista. Ma di inciucio, comunque, si tratta. La motivazione? La più classica e “responsabile” che si possa addurre in tempo di crisi: la governabilità. Non puzzasse di craxismo la si userebbe con più disinvoltura.
Non è solo un problema di numeri. Ormai tutti sanno che con la legge elettorale che ci ritroviamo il partito che ottiene più voti alla Camera prende un premio di maggioranza che gli assegna il 55 per cento dei seggi. Nelle ipotesi più verosimili, essendo la coalizione di sinistra quotata al 35-36 per cento, il premio sarebbe del 20 per cento circa (per capirci, è come aggiungere ai voti di Pd-Sel tutti quelli del Pdl, dato nei sondaggi appena sopra il 20). Non è così al Senato, dove il premio è su base regionale e, se non conquisterà Sicilia, Veneto, Campania e Lombardia, la coppia Bersani-Vendola dovrà chiedere il “soccorso civico” dei casini-fini-montiani.
Che Casini non abbia nessun problema in merito non è una novità. Con una Udc cannibalizzata dal voto montiano alla Camera, dove i tre alleati di centro si presentano ognuno con il suo simbolo, ma dove tutti giocano la carta “Monti premier” a scapito della loro visibilità, Casini punta tutto sul Senato, dove i tre sono uniti sotto lo stesso simbolo, dove si è candidato, dove il gruppo di Scelta civica potrebbe essere per metà composto da senatori dell’Udc e quindi decisivo per l’elezione del presidente di Palazzo Madama. Se glielo chiedono, e anche se non glielo chiedono, Casini è pronto a “salire” sullo scranno di seconda carica dello Stato.
Che Fini non abbia nessun problema ad allearsi con Bersani e financo con Vendola (sui temi bioetici che possono essere di freno per qualcuno l’ex leader di An può insegnare laicismo a molti) non è cosa che preoccupi alcuno, visti i numeri da “non pervenuto” che circolano nei sondaggi.
Un impegno messo nero su bianco
Quanto ai problemi e ai desiderata di Monti rispetto a questa alleanza, prima di considerarli val la pena vedere l’approccio da sinistra alla questione. Non si promettono qui rivelazioni. Niente è più inedito dell’edito, basta saperne fare memoria e metterlo in ordine. In parte lo ha già fatto per noi Claudio Cerasa del Foglio, che in una “controstoria” del patto Bersani-Monti ha ricordato una data: 13 ottobre 2012. A dispetto delle smentite, che ricordano molto l’ammuina del “facite la faccia feroce”, parlano i fatti, e in politica le parole stesse sono fatti. Le parole dette per smentire e subito corrette per non essere smentiti in futuro, come quando Monti dice «non c’è nessun patto con Bersani, di più, non c’è nessuna conversazione», ma non esclude accordi (quindi patti e conversazioni) dopo il voto, «a patto di poter esercitare un’influenza decisiva». Influenza che, s’è detto, dipende dai numeri, quindi Monti ha bisogno di capitalizzare al massimo, anche attaccando Bersani e più di lui Vendola, per potersi poi sedere al tavolo con loro.
Ma torniamo al 13 ottobre scorso. In quel giorno, racconta Cerasa, «i leader dei tre partiti che compongono il fronte dei progressisti (Bersani, Vendola, Nencini) si ritrovarono a Roma per firmare la “Carta degli intenti” del centrosinistra». Le tre firme apposte sottoscrivevano questa frase: nella prossima legislatura i progressisti dovranno «cercare un terreno di collaborazione con le forze del centro liberale e s’impegnano a promuovere un accordo di legislatura con queste forze, sulla base della loro ispirazione costituzionale ed europeista di una responsabilità comune di fronte al passaggio storico, unico ed eccezionale, che l’Italia e l’Europa dovranno affrontare nei prossimi anni».
Il ministro Andrea Riccardi fa notare che il documento è del 13 ottobre, mentre il centro così come si configura adesso «è nato a novembre». Il fondatore di San’Egidio, che ha rinunciato alla candidatura ritagliandosi il ruolo di Richelieu di Monti, sottovaluta il significato di Scelta civica, che sarà pure nata a novembre, ma un po’ di gestazione l’avrà avuta. O forse crede che quando Bersani, Vendola e Nencini parlano di «centro liberale» pensano a ex democristiani come Cesa e agli ex missini di Fini, noti per la loro «ispirazione costituzionale ed europeista»? «Quel passaggio che abbiamo controfirmato io, Nichi e Pier Luigi l’ho scritto personalmente – ha spiegato al Foglio Riccardo Nencini, segretario del Psi – e vuol dire una cosa semplice, non ci possono essere fraintendimenti: un accordo di governo tra sinistra riformista e centro. Di governo, proprio così. Quando firmammo quella carta, sembrava che dovesse essere approvata una legge elettorale che ci avrebbe obbligato ad allargare la maggioranza anche alla Camera per poter governare. Oggi siamo di fronte a una legge diversa, visto il rischio di instabilità che si prospetta al Senato l’interpretazione da dare a quel passaggio è sempre la stessa: il centrosinistra, dopo le elezioni, comunque andranno le cose, chiederà al “centrodestra buono”, se così si può dire, ovvero quello di Monti, di fare un accordo di legislatura, e di governare insieme».
Si dirà: vabbè, ma è Nencini. Conta quello che dice Bersani. Bersani da parte sua è andato ad accreditarsi a Berlino (una volta si andava a Washington) e di fronte al dominus della politica rigorista di Angela Merkel, il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, ha evocato convergenze parallele con Monti. Ha poi detto (novello De Gasperi?) che qualora raggiungesse il 51 per cento dei voti, intenderebbe governare come se ne avesse 49, cercando quindi alleati alla sua destra senza spingersi troppo oltre. Non sembri una concessione che fa di necessità virtù (Bersani sa che difficilmente avrà la maggioranza in entrambe le Camere), è una dichiarazione programmatica di valore politico: mi interessa un patto governativo con Monti. E non con altri, come rassicura Dario Franceschini escludendo qualsiasi «accordo di governo» con il centrodestra berlusconiano, ma prendendo invece in seria considerazione l’ipotesi che possano crearsi le «condizioni numeriche o politiche che rendano utile o necessario un allargamento della maggioranza nostra e di Sel a quel fronte moderato a vocazione europea, guidato da Monti».
Il disegno di Andrea Riccardi
Per essere sicuri al Foglio hanno sentito anche un esponente della corrente più a sinistra del Pd, i cosiddetti giovani turchi, mai teneri con il governo Monti. Ebbene, Matteo Orfini dice che con il centro montiano «una collaborazione è nelle cose, anche al governo, ma il ruolo che potrà avere Monti dipenderà da due fattori: se la sua coalizione sarà aggiuntiva oppure decisiva». A sinistra capiscono che le cancellerie internazionali mal gradirebbero un esecutivo senza la finanziariamente rassicurante presenza di Monti, al quale comunque non sarebbe riservato il dicastero dell’Economia (il primo ex comunista che arriva a Palazzo Chigi non per un accordo parlamentare come fu per Massimo D’Alema ma per designazione popolare non può politicamente e psicologicamente cedere il governo dell’economia a un tecnico, il posto sarebbe già occupato da Enrico Letta), semmai un ministero di prestigio come gli Esteri (D’Alema potrebbe sollevare qualche obiezione personale). Nel caso in cui a dare le carte fosse Monti, le ipotesi sul suo futuro sarebbero più “istituzionali”, dal Quirinale (dove i pretendenti sono più di uno) alla presidenza del Senato (Casini permettendo), a un ruolo che lo proietti verso la presidenza del Consiglio europeo, posto attualmente occupato dal belga Herman Van Rompuy.
Come risponde Monti a queste avance? Con aperture, distinguo e smentite cui seguono precisazioni che ne attutiscono la portata. Monti non esclude di entrare in un governo Bersani («Io ministro di qualcun altro? Vedremo»), mentre ha escluso categoricamente di guidare il centrodestra: «Berlusconi mi aveva proposto di guidare i moderati, è vero… Ma io non posso accettare una guida che mi venga concessa da qualcuno». In realtà i parlamentari del Pdl non è che non gli interessino, ma solo quelli “buoni”. Lo screening è affidato a Riccardi che parla per il dopo elezioni di un “allargamento” della maggioranza alle forze responsabili del Pdl. «Il gruppo montiano – ha detto – sarà un polo attrattivo, anche perché dentro il Pdl c’è già stato un profondo divorzio politico e culturale». La ricetta dell’ecumenico Riccardi è dunque quella di una alleanza a sinistra che emargini Vendola (c’è sempre una curia di cui tener conto) e della sostanziale richiesta ai deputati “presentabili” della destra di prodursi nel più vecchio e detestabile malcostume politico italiano, il trasformismo. Sembra molto una cortina di fumo per mascherare la vera alleanza governativa, quella col Pd. Non sono mancati i piediellini “presentabili” pronti a passare con Monti sin dalla sua salita in politica. Un esempio che fa testo, Alfredo Mantovano, cattolico irreprensibile con una apprezzata esperienza da sottosegretario all’Interno: respinto, nessun posto per lui in lista. E pare che le parole decisive per le composizioni delle liste, soprattutto sui cattolici, siano state proprio quelle di Riccardi.
Albertini governatore ma anche no
Ma a fugare dubbi residui c’è la pantomima del voto disgiunto in Lombardia, dove il candidato di Scelta civica alla Regione è Gabriele Albertini, in lista per Monti anche al Senato. Più di un montiano autorevole ha invitato gli elettori a dare il voto al candidato della sinistra Umberto Ambrosoli, da ultimo il suo collega di lista per il Senato Pietro Ichino. Monti si è visto costretto a smentire: «Non condivido la logica del cosiddetto voto utile o inutile e quindi auspico che coloro che voteranno Scelta civica alla Camera e al Senato votino Albertini», ha detto. Spiegando che questo è un «disegno coerente» per «non avere la Lega al governo della Lombardia». Non si sa se ad Albertini basterà l’auspicio (per di più successivamente smorzato dal Professore in nome della «tolleranza»: «I nostri candidati sono liberi di votare chi credono»), certo è che la sua candidatura in Regione viene ridotta, nelle parole dello stesso Monti, a una candidatura “contro”, non una corsa per vincere, ma per far perdere il centrodestra. A Milano si chiede esplicitamente con il voto ciò che si pensa di fare a Roma dopo il voto: sostenere la sinistra. Ma la Lombardia non è un caso isolato. In Trentino, dove per il Senato si vota con un diverso sistema elettorale (il mattarellum), il patto nazionale tra Svp-Patt e Pd, firmato da Bersani è stato allargato in provincia di Trento ai “montiani” di Dellai, che invita anche i lombardi a votare Pd. Monti smentisce, ma un candidato Pd doc come Stefano Ceccanti se ne vanta. Il Lazio è il laboratorio di una terza versione del patto non scritto. Qui il candidato centrista, Giulia Bongiorno, è sostenuta piuttosto da Udc e Fli (Casini e Fini) mentre Italia Futura, magna pars del centro montiamo, appoggia il candidato del Pd Nicola Zingaretti, che si presenta sotto le insegne di una lista civica.
Val la pena, a questo punto, di riportare un passaggio dell’intervista che il presidente del Consiglio concesse a questo settimanale in occasione del Meeting di Rimini. Al direttore che gli chiedeva se intendeva «smentire o no la notizia del settimanale L’Espresso secondo la quale lei, nell’autunno del 2010, venne contattato dall’onorevole Massimo D’Alema, che a Milano, in una cena a casa di un noto professionista, le propose con altri l’assunzione di responsabilità politiche e di governo nel caso di una caduta anticipata del governo Berlusconi», Monti rispose: «Non smentisco quell’occasione e posso solo dire che nel mondo politico ci furono diverse persone che, intorno a quell’epoca, nelle loro previsioni o scenari sul futuro politico italiano di breve termine, mi prospettarono ipotesi che mi coinvolgessero. E io sono sempre stato ad ascoltare pensando che si sbagliassero». Fra i tanti che in seguito l’hanno chiamato ci sono anche i leader europei del Ppe. Desiderosi di vedere anche in Italia il confronto fra le due grandi famiglie politiche europee, non si aspettavano certo che il leader della forza popolare alternativa alla sinistra da loro individuato ne sarebbe diventato la stampella governativa.