«Femminicidio è una parola terribile. Trasforma la persona in oggetto»
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Questa intervista allo psichiatra Eugenio Borgna fa parte di una serie di articoli sul tema del femminicidio. Qui le interviste alla professoressa Daniela Bandelli e allo psicanalista Claudio Risé.
«C’è un problema soprattutto di relazione. In una società attanagliata dall’incertezza della propria identità, che ha perso la capacità di cogliere la ricchezza della differenza, l’uomo non tollera i confini sempre più ampi di espressione conquistati dalla donna, si sente minacciato in quella che è stata la sua supremazia. Il diluvio di immagini che ritraggono la donna come un oggetto, così come paradossalmente l’accentuarsi delle politiche di neutralizzazione delle specificità essenziali e connaturate al mondo del maschio e della femmina, finisce col disumanizzare l’altro e la disumanizzazione del prossimo diffonde una scia di impulsi che arrivano anche alla tentazione omicida». Non si tratta di follia imprevedibile, non lo è quasi mai per Eugenio Borgna quella che porta a conseguenze estreme per le donne conosciute, amate e poi fatte a pezzi da chi ha condiviso con loro anche solo un letto, una casa o un progetto di vita. Persone diventate cose, come attesta la stessa etichetta usata per identificare le 116 donne uccise da marito, partner o corteggiatore respinto nel 2016: “femminicidio”, «una parola pessima, terribile. Trasforma la persona in oggetto, reifica e disumanizza l’altro. Andrebbe cancellata e mai più usata».
Psichiatra, saggista, decano delle anime, bastano poche parole a Borgna per tornare a ciò che è andato perduto nella narrazione dominante – tesa nello sforzo di arginare la violenza sulle donne a colpi di cambiamento culturale e linguistico attraverso politiche di uguaglianza e pari opportunità –: la violenza, il male, è connaturato alla condizione umana. E c’è un contesto in cui il male inizia ad affiorare e svilupparsi nel maschio trasformando forza vitale in atto distruttivo: la mortificazione di un terreno fertile di incontro su valori comuni, la mortificazione della coscienza delle vitali e necessarie differenze, la mortificazione della fede che riempie di speranza e orizzonte una vita insieme.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«Senza dubbio l’allarme qualche volta assume una accentuazione esagerata, la frequenza del fenomeno è circoscritta, ma grande è il suo significato simbolico: l’aggressione di una donna è un atto che sostituisce e trasforma in violenza la mancanza di una capacità umana di accoglienza della dignità e della libertà dell’altro». Per Borgna è qui che bisogna intervenire, «io credo che l’obiettivo della parità dei diritti in sé non escluda la specificità e la ricchezza interiore così profondamente diversa tra uomo e donna: ma giungere a una cancellazione delle differenze è impossibile, sono due mondi diversi nati per incontrarsi e conciliarsi e non possono in alcuna misura essere uniformati».
Non solo il criterio dell’appartenenza al genere che orienta molti degli interventi delle istituzioni non è efficace (lo dicono i numeri: gli abusi di genere sono più diffusi nei paesi in cui le donne sono più emancipate), ma in qualche modo «sottolinearli in maniera esasperata accentua paradossalmente il rischio dell’aggressione».
In un contesto non più educato a guardare l’altro come una persona ma come un oggetto che può acquistare e possedere anche con la forza, «l’uomo non vede più nella donna qualcosa di diverso da sé da incontrare e rispettare: è un suo pari, una persona dotata dei suoi stessi diritti, la stessa autonomia, può essere aggredita con più tranquillità interiore. È un impulso, che si fa strada, giorno dopo giorno, volto alla disumanizzazione del prossimo». Non si tratta quasi mai di follia. L’aggressione è un processo che si alimenta giorno dopo giorno e che sfocia in atto di violenza estrema nel momento in cui la donna oppone, come è giusto, resistenza. «È lì che scatta qualcosa e la reazione diventa distruttiva. Come i fiocchi di neve diventano valanga, così dalle piccole violenze si arriva alla violenza estrema, ed è evidente che l’uomo disponga di forza e aggressività in misura diversa da una donna».
Non è il maschio il problema. L’esasperazione della violenza si ricollega a una società «sempre più autistica, sempre meno ispirata da valori e quindi più fragile, esposta a forme sempre più patologiche di aggressione. Riportare allora anche l’uomo a considerare la donna come sorgente di libertà e dignità continua è possibile solo se cambiamo la concezione dominante che spegne e cancella le differenze. Riabilitare il contesto culturale sociale cristiano della vita: sarebbe questa la condizione che cambierebbe gli scenari. Valutare la dignità umana nel segno di una speranza e visione cristiana che è la sola che può riportare le relazioni di un uomo e di una donna nel solco di una reciproca autonomia e di un reciproco rispetto». Senza questa coraggiosa rivoluzione ogni atto di violenza, da qualunque cortocircuito nasca, diventa distruttivo.
Foto Ansa
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