Stamford Bridge, inizia il Mourinho II. C’erano 250 giornalisti accreditati ad aspettarlo questo pomeriggio, perché il ritorno dello Special One è pur sempre una notizia mediatica. Dalle parti di Londra il suo nome suona ancora come leggendario, seppur il neo-manager del Chelsea arrivi da una stagione tutt’altro che brillante al Real Madrid. Le disavventure madrilene ormai sono alle spalle per lui: non c’è risentimento per gli ultimi mesi con le Merengues, anzi ora Mou ora non è più lo Special One come si battezzò al suo arrivo a Londra nel 2004. Adesso è «the happy one. Sembra solo due giorni fa, ma in realtà sono passati 9 anni. Sono la stessa persona di prima, ho lo stesso cuore, ho lo stesso genere di passioni per il calcio e per il mio lavoro, ma ovviamente sono una persona diversa. Se devo descrivermi, sono una persona davvero felice. È la prima volta che arrivo in un club dove sono già amato».
«QUI È DOVE VOGLIO ESSERE». E si vede che si sente a casa. Londra non si è dimenticata del suo stile, che è quello mourinhano di sempre, una spanna sempre sopra gli altri, con l’aria snob di chi la sa più lunga di tutti che tanto fa imbestialire i giornalisti, ma che sa mandare in estasi i tifosi. Secche le frecciate a Iniesta e alla sua accusa di aver portato più danni che benefici al calcio spagnolo («Ho danneggiato il calcio spagnolo rompendo il dominio del Barcellona»); deciso il piglio con cui dribla chi gli chiede se piange per non essere stato contattato dal Manchester («No, qui è dove voglio essere. È il mio lavoro, ciò che voglio»), filosofico quando gli chiedono se pensa di potersi ancora migliorare («Credo sempre nel mio lavoro. Conosco il tipo di mentalità e ambizione che la gente ha, e il mio messaggio ai giocarotir è: “Lavora duro, con qualità, il club è molto più importante di noi, non siamo null asenza la squadra”»).
«ALL’INTER MIGLIOR MOMENTO DELLA CARRIERA». Ma è ad Abramovich che Mou rivolge le parole più al miele. “The boss” nove anni dopo ha avuto il coraggio di scommettere ancora su di lui, nonostante la fine burrascosa dei rapporti anni fa e i successivi trionfi mourinhani lontano da Londra. «Ho letto che fui licenziato perché ci fu una totale rottura nel rapporto tra noi, ma questo non è vero. Fu un accordo consensuale, all’epoca pensammo che era la cosa migliore per me e la squadra. Era un momento triste quello, ma non ho rimorsi per quella decisione perché poi andai all’Inter, dove ebbi forse il miglior momento della mia carriera. Se ci fosse stata una vera rottura, dei problemi reali, beh, non sarei qui oggi». C’è una parola che torna spesso nelle risposte di Mourinho: stabilità. Prima non poteva pretenderla perché per sua stessa ammissione ancora immaturo, ora c’è l’esempio di Ferguson da seguire. E in una Premier da costruire sulle ceneri del dopo Sir Alex, dove le tre migliori squadre hanno cambiato tutti allenatore, Mou è tornato per essere protagonista a lungo: «Ho trovato grandi club in regioni diverse, ma c’è un bisogno di stabilità nel in termini calcistici».
DILEMMI E SFIDE. Le sfide non sono poche: la prima è quella dello spettro di Rafa Benitez, tanto criticato e spedito a casa quanto vincente in Europa League da signore. Poi c’è da capire quale filosofia imprimere alla squadra, specie davanti, dove il mercato va in cerca di punte di spessore (Rooney, Dzeko, Jovetic, Cavani) costose e problematiche da portare nell’immediato a Londra, a sostituire un Torres decisamente sottotono negli ultimi anni. E infine c’è da stringere il cerchio all’interno della società, cercando di sfruttare la gran quantità di giovani leve che l’academy dei Blues sputa fuori, mai valorizzata appieno dagli allenatori precedenti. Mou non ha fretta e vuole imporsi con stabilità, forse gli investimenti onerosi di Abramovich spingono per risultati più frettolosi ma alla fine chi sembra portare i pantaloni è il portoghese. «Una squadra senza l’impronta digitale del suo allenatore non sarà mai una squadra. Può assomigliarle, ma non lo è», Mou is back.