

Ha i giorni contati il Depo Provera, uno dei più controversi anticoncezionali in circolazione, creato nel 1969 ma autorizzato negli Stati Uniti solo dal 1992, utilizzato massicciamente in Africa per la pervicace volontà dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Un nuovo studio è venuto a confermare che l’uso di questo contraccettivo, sospettato di deprimere le difese immunitarie, raddoppia il rischio di contrarre l’Aids sia da parte di donne sane che hanno rapporti con uomini infetti, sia da parte di uomini che hanno rapporti con donne infette che stanno facendo uso del Depo Provera. Mentre la cancerogenicità del prodotto non è mai stata effettivamente dimostrata, sin dalla fine degli anni Settanta era provata la sua associazione con un forte incremento dell’incidenza dell’osteoporosi. Uno studio condotto in Italia, per esempio, aveva dimostrato che il 40 per cento di giovani donne che utilizzava il contraccettivo da dodici mesi presentava una densità ossea inferiore alla media, contro un dato del 18 per cento per la popolazione femminile della stessa età che non lo utilizzava. Negli Stati Uniti studi legali specializzati hanno assistito per anni donne che intentavano cause alla Pfizer, produttrice del farmaco, perché attribuivano al Depo Provera la causa della loro osteoporosi, fino a quando nel 2004, d’accordo con la Food and Drugs Administration, la multinazionale ha inserito nelle confezioni un “black box warning”, una messa in guardia rafforzata sugli effetti collaterali dell’uso del medicinale, che l’ha messa al riparo da nuove cause giudiziarie.
Perché l’Oms ha continuato a diffondere nei Paesi in via di sviluppo, principalmente nell’Africa sub-sahariana, l’utilizzo di un contraccettivo che ha sollevato controversie fin dall’inizio? Per la sua estrema praticità: il Depo Provera si inietta una volta ogni tre mesi, e l’effetto anticoncezionale è talmente forte che dopo la cessazione delle iniezioni ci vogliono dai 9 ai 18 mesi prima che la donna torni ad essere feconda. Presentato a livello internazionale come il contraccettivo per la donna sportiva o in carriera che non può rispettare le tempistiche categoriche della pillola, il Depo Provera è stato nella realtà lo strumento di politiche sanitarie fondate sul pregiudizio razziale: un prodotto destinato a donne analfabete e ignoranti, incapaci di rispettare la posologia e i tempi di assunzione dei normali anticoncezionali ormonali. La fama sinistra del farmaco discende anche dal fatto che associazioni per i diritti delle donne e dei consumatori hanno ripetutamente accusato la Pfizer e i servizi sanitari di vari paesi per casi di coercizione e di mancanza del consenso informato. Le prime sperimentazioni del farmaco sono state condotte con donne povere e analfabete nei Paesi in via di sviluppo, e negli Stati Uniti risulta somministrato quasi esclusivamente a donne povere, di colore, semianalfabete o addirittura ritardate mentali non sessualmente attive, come precauzione per evitare gravidanze conseguenza di abusi. Nel 1995 un’indagine sperimentale sugli effetti a lungo termine del Depo Provera su 13 mila donne di Atlanta, per lo più di colore e titolari di assegni dell’assistenza sociale, fu chiusa fra polemiche e proteste quando apparve chiaro che la maggior parte di esse non aveva dato il consenso informato, che i dati non erano raccolti seriamente e alcune di esse ricevevano il trattamento nonostante fosse controindicato per le loro condizioni di salute.
Quali potrebbero essere le conseguenze legali di un legame scientificamente dimostrato fra l’uso del Depo Provera e l’incremento dell’esposizione all’Aids è difficile da valutare. A creare imbarazzo è il fatto che il primo studio che asseriva l’esistenza del legame risale al 2004, opera di National Institutes of Health, University of North Carolina e Johns Hopkins University di Baltimora; addirittura dal 1996 era stata evidenziata l’associazione fra applicazione del farmaco e incremento dell’Aids nelle scimmie. C’è voluto un terzo studio di alto livello, quello condotto dai ricercatori della University of Washington su 3.800 coppie in Botswana, Kenya, Ruanda, Sudafrica, Tanzania, Uganda e Zambia, appena pubblicato su Lancet Infectious Diseases, per insinuare qualche dubbio nei tetragoni responsabili dell’Oms. Come si desume dalle dichiarazioni di Mary Lyn Gaffield, un’epidemiologa del Dipartimento salute riproduttiva e ricerca dell’Oms: «Abbiamo intenzione di rivalutare le raccomandazioni cliniche dell’Oms sull’uso dei contraccettivi», ha detto annunciando un summit convocato per gennaio prossimo. Ma ha subito aggiunto: «Vogliamo essere sicuri che stiamo giudicando le nostre raccomandazioni sulla base delle migliori evidenze scientifiche disponibili e che le stiamo interpretando correttamente. Vogliamo essere sicuri che ci sia la reale necessità di lanciare un allarme, e non vogliamo uscircene con una valutazione affrettata che avrebbe gravi conseguenze per la salute sessuale e riproduttiva delle donne». Difficile immaginare, in Africa, una conseguenza più grave del contagio da Aids.
Negli anni Novanta, grazie ai fondi messi a disposizione dagli Usa sotto la presidenza Clinton, l’Unfpa (l’ente delle Nazioni Unite per il controllo demografico) metteva a disposizione 20 milioni di dosi di Depo Provera all’anno. Usaid continua attualmente ad inviare più unità di Depo Provera in Africa, in paesi come Mozambico, Tanzania e Nigeria, che in qualunque altra parte del mondo.
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