Ci sono riformisti a parole e riformisti nei fatti: la prima categoria, si sa, in Italia ha cittadinanza ormai trentennale. La seconda, invece, ha la propria patria in Gran Bretagna, modello di società sempre più spesso additata ad esempio di buon governo e pragmatismo, salvo poi dimenticarsene e imboccare la strada diametralmente opposta. Qualche esempio? Per chi pensava che le dimissioni forzate del ministro per il Welfare e il Lavoro, David Blunkett, a causa di un conflitto d’interessi sancisse un netto stop al progetto di Tony Blair per un white paper di drastica riforma del settore, la risposta è giunta a stretto giro di posta con la nomina del suo successo, quel John Hutton da molti descritto come più blairiano dello stesso Blair. Quale il suo primo progetto? Turn off the tv, ovvero spegnere la televisione e tornare a lavorare compatibilmente con le proprie condizioni fisiche.
Stiamo parlando delle migliaia di percettori di sussidi statali per invalidità che, nei piani dei governo, verranno richiamati al lavoro pena la completa perdita del loro benefit: per il governo, infatti, «il modo migliore per combattere la depressione e l’idea stessa di essere ai margini della società è quella di spegnere la televisione durante il giorno, smetterla di vegetare e tornare al lavoro, tornare soggetti attivi della società». D’altronde, il dato britannico appare allarmante: nonostante il lavoro sia oggettivamente meno duro fisicamente di quanto non fosse soltanto 25 anni fa, il dato odierno ha visto aumentare di quattro volte la richiesta di sussidio rispetto a quello di inizio anni Ottanta: 2,7 milioni in totale, «un dato che ci dice come sia successo qualcosa di molto strano all’interno della nostra società». Troppi furbi, in parole povere. Quindi, la ricetta appare molto chiara: o accettate di tornare a lavorare, vedendovi drasticamente ridurre – ma non eliminare – il sussidio a fronte di uno stipendio attivo, oppure l’aiuto che fino ad oggi lo Stato vi ha offerto sparirà per sempre senza contropartita alcuna.
LA FAMIGLIA DECIDE
Ma se questo ancora non vi basta per sancire con chiarezza tra riformisti a parole e riformisti nei fatti, vediamo cosa sta preparando il governo Blair in fatto di educazione per il prossimo autunno. Il motto prescelto, di per sé, vale mille spiegazioni: i genitori al centro del sistema educativo, la libertà di scelta come criterio base della nuova società. è infatti questa l’ultima rivoluzione britannica in fatto di educazione, comunicata ufficialmente dal ministro dell’Istruzione in persona, Ruth Kelly: i genitori degli studenti, riunitisi in gruppi, potranno infatti beneficiare di denaro statale per creare nuove scuole in cui far studiare i propri figli. Lo stesso potrà accadere con aziende private e charities, in un piano che intende eliminare del tutto il monopolio statale sull’istruzione: «Stiamo approntando piani sperimentali per monitorare i risultati, siamo fiduciosi del fatto che entro l’autunno potremo entrare nella fase dell’operatività per almeno una trentina di progetti», ha chiosato la Kelly di fronte alla Local Government Association.
Una scelta perfettamente in linea con il manifesto elettorale del Labour, che prometteva infatti maggior centralità dei genitori nel processo formativo ed educativo dei figli: una scelta che oltre a puntare ad un miglioramento del sistema e dei suoi standard mira anche a responsabilizzare maggiormente le famiglie rendendole più attivamente partecipi alla vita dei figli, attitudine che nelle intenzioni di Downing Street garantirebbe anche un maggior controllo dei potenziali comportamenti devianti e anti-sociali. Una rivoluzione, insomma, anche se annunciata. Alla fine di agosto dal suo buen retiro alle Barbados – vilipeso dai Tories come sei i premier conservatori in vacanza non si fossero mai spostati oltre Watford – Tony Blair aveva infatti dato mandato al suo uomo di punta per le riforme educative, l’ex advisor politico Lord Andrew Adonis, di stilare un white paper per l’ampliamento del modello delle city academies finanziate dai privati e gestite con criterio manageriale, una sorta di liberalizzazione dell’istruzione attesa in Gran Bretagna da almeno un lustro. Attaccate da sinistra per il rischio di un’eccessiva influenza degli sponsor sui percorsi didattici, queste istituzioni sono infatti il vero e proprio pallino del primo ministro: che, stando a indiscrezioni, avrebbe già deciso il loro aumento da 20 a 200 e la possibilità che Whitehall obblighi i local councils riottosi a facilitarne l’apertura.
La scelta sarà seguita dall’introduzione di nuovi standard educativi finanziati da un trust governativo ad hoc. Il piano prevede anche la rimozione del potere di controllo sulle scuole da parte delle autorità locali e la possibilità per i presidi, intesi ormai come veri e propri manager, di gestire le scuole in base alle proprie scelte come se si trattasse di una vera e propria azienda: in caso di successo, più fondi statali. In caso di fiasco, il licenziamento.
Ora, con il primo ministro impegnato tra Cina e India, è toccato al ministro dell’Istruzione, Ruth Kelly, passare alla fase operativa del piano di riforma: che, se possibile, è ancora più draconiano e innovativo di quanto le prime anticipazioni estive facessero credere. In onore alla politica del naming and shaming avviata fin dal primo mandato a Downing Street per combattere la piaga della scarsa qualità dell’istruzione britannica, infatti, il Cabinet ha sancito che tutte le scuole con i conti non in regola avranno 12 mesi – e non più da 18 mesi a sei anni come è stato fino ad ora – per mettersi a posto: altrimenti verranno chiuse e riaperte affidandole a nuovi dirigenti e responsabili provenienti da istituti coi migliori risultati.
CHI NON FA IL PROPRIO DOVERE? A CASA
«Pensate se in una di quelle classi ci fosse vostro figlio: vi pare che due anni siano pochi per ‘rimettersi in carreggiata’, non sono troppi ventiquattro mesi di cattivo apprendimento e scarsi standards, anche in vista del Gcse (l’esame di maturità britannico, ndr)», questa la risposta del ministro Kelly alle critiche levatesi quasi immediatamente dal fronte più sindacalizzato della scuola, risposta forte anche del tasso bulgaro di promozioni agli esami di media superiore, indicatore di un livello che non punta di certo all’eccellenza. Ma, a dispetto delle critiche, in molti tra i dirigenti scolastici danno ragione al ministro. Come ad esempio Maureen Brennan, head teacher alla Hillcrest School and Community Colege di Dudley, nelle West Midlands, che nel settembre del 2000 vide il proprio istituto classificato come fallimentare dalla Ofsted, l’autorità nazionale britannica che vigila sulla qualità degli standard d’insegnamento e posto sotto ‘misure speciali’, ovvero una sorta di libertà vigilata in attesa di miglioramento delle performances e quadratura dei conti.
Nel 2002 l’istituto era già classificato come ‘very good’ e la signora Brennan ha chiaro in testa il motivo di questo risultato: «è molto semplice: se qualcuno non fa il suo lavoro, o si mette a farlo e in fretta oppure va cacciato via. Non è accettabile che l’educazione dei nostri figli, il futuro del Paese, sia messa a repentaglio dalla mancanza di responsabilità e senso del dovere di alcuni presunti adulti». Naming and shaming, appunto, in nome della libertà di scelta e del capitale umano.