Atrofia dell’esperienza. Non si capisce di cosa stiamo veramente parlando quando parliamo di “progresso”, “diritti”, “amore”, “famiglie arcobaleno” e, dunque di legge Cirinnà, se stiamo attaccati alle chiacchiere di Luxuria, ai like di Facebook, alle chimere dei discorsi campati per aria.
E soprattutto se ci facciamo adescare dai filmati tv che servono gli occhi di tutti noi e le emozioni di ciascuno di noi con le immagini Mulino Bianco delle felicissime coppie gay che tengono in braccio dolcissimi bebè. Da dove provengono questi affreschi che nulla hanno da invidiare ai languidi, devoti, bigotti e sdolcinati ritratti ottocenteschi di sacre famiglie e madonnine infilzate?
Solo una grave atrofia dell’esperienza, naturalmente supportata dall’illusionismo digitale e dal bombardamento mediatico del virtuale, può far perdere di vista la realtà contenuta nelle narrazioni zuccherose svolte per immagini zuccherine. Nessuno che lavori nel marketing e nei backstage delle tv ci crede. Nessuno degli operatori televisivi ha occhi ed emozioni per quello che vediamo e emoziona noi. È un lavoro come gli altri versare atropina digitale negli occhi del pubblico e produrre nello spettatore emozioni. È vendere un prodotto.
Fortuna vuole che chi scrive ha vissuto in un’altra vita esperienze da manovale, backstage e, soprattutto, di acquirente-venditore. Operaio al trapano. Scaricatore di Tir. Cavia per medicinali da testare. E promotore basico di prodotti discografici.
Quest’ultimo, in particolare, è un ricordo interessante per l’oggetto in questione. Si trattava infatti di un mestiere elementare, proprio da ragazzini, e che più si avvicina all’attuale attività di chi va all’estero ad acquistare un bambino e torna in Italia per chiederne l’adozione.
Qui lo scopo è la creazione di situazioni di fatto per arrivare a forzare la mano del legislatore e ottenere il riconoscimento dello status di “famiglia”. Là si trattava di comprare dischi per invogliare il negoziante a rifornirsi di determinati titoli. Qui c’è un’operazione altrettanto economica, ma con scopi politico-idealistici (matrimonio e famiglia egualitari) e nobilmente motivati da desiderio e da amore. Di fatto, io compravo dischi, questi comprano bambini.
È lo stesso identico processo per cui io incassavo (denaro) per promuovere le vendite di un certo manufatto (il disco). Questi incassano il beneficio di un manufatto ottenuto col denaro (il bambino). Però l’effetto qui è spropositato. Non solo c’è il beneficio di un manufatto ottenuto col denaro e promuove un’immagine nobile e idealistica di un certo gruppo sociale. Ma c’è anche l’effetto politico rivoluzionario. Mentre si tace, resta completamente oscurato, tutto il resto. Cioè la più prosaica e per niente idealistica e nobile realtà di una industria (denaro, profitti) che non è discografica o di robot. No, è proprio industria e commercio di quei particolari manufatti: i bambini.
Ho scritto “manufatto” e non sbaglio perché, in ogni caso, la dimensione umana della sessualità e della fecondità è abolita. Cosa vuol dire, infatti, separare un bambino dalla possibilità di nascere dalla relazione intima tra un uomo e una donna? Significa abolire la possibilità umana e attivare la protesi dell’umano, la produttività tecnica.
Nel caso di una coppia gay il bambino è un prodotto che sfila sulla linea della nuova catena fordista dello sperma, ovulo e utero in affitto se si tratta di due uomini. Della fecondazione in provetta e trasferimento dell’embrione in utero (o per intervento di manovalanza maschile) se si tratta di due donne.
Non mettiamo di mezzo visioni religiose e convinzioni relative all’immagine divina della persona umana.Vediamo la cosa dal punto di vista prettamente materialista. Vogliamo ricordare alla sinistra postcomunista e postsocialista, che questo tipo di produzione ha innanzitutto la caratteristica dell’alienazione e della parcellizzazione capitalistica del lavoro come mai si erano osservati prima d’oggi nel processo di produzione e accumulazione capitalistica. È qualcosa che la sinistra – postsocialista o postcomunista – dovrebbe aborrire e combattere dal più profondo di sé e della propria identità storica.
Infatti, sebbene nella produzione dei manufatti l’operaio o l’operaia sono alienati e parcellizzati in quanto non possiedono il significato complessivo del loro lavoro perché ognuno produce sempre e soltanto il proprio segmento (il bullone) e non il prodotto finito (l’automobile), siamo pur sempre nelle condizioni per cui il lavoratore non deve spogliarsi di parti della propria umanità per produrre un determinato oggetto. Diversamente, l’acquirente finale di un bambino sfrutta il lavoro alienato e parcellizzato di uomini e, soprattutto di donne, che, in cambio di un salario, cedono alla produzione capitalistica anche una parte di se stessi. Non soltanto la propria “forza lavoro”. Ma tutto intero il proprio corpo, i propri sentimenti, le proprie emozioni, i propri desideri.
Dalla catena di produzione capitalistica di stampo fordista della rivoluzione industriale americana uscivano solo automobili, televisori, lavatrici eccetera. Adesso, grazie alla “rivoluzione Lgbt”, dalla stessa catena di montaggio comincia ad uscire vita umana, embrioni umani, bambini. Questa è la narrazione, l’informazione e la dialettica decisiva che manca nell’epoca in cui le immagini e le emozioni possono essere giocate per dire tutto e il contrario di tutto.
Ma se prendi un telecamera e la pianti sulla testa o nel petto di due uomini e due donne alla prese con l’amore e il desiderio di un bambino prodotto per via tecno-scientifica, cosa vedi? Vedi quella catena di montaggio lì. Dove l’essere umano diventa un televisore, un’automobile, una lavatrice. Perché non montano una videocamera GoPro anche sulla testa di coppie che vanno su internet, nei laboratori e nelle cliniche della procreazione in provetta e in utero in affitto per far sentire al pubblico quale emozione si prova nel vedere da quale cicogna arriva un bambino di cosiddetta “famiglia arcobaleno”? Certo che anche le coppie etero possono fare lo stesso. Ma non potevano essere loro i ragazzini che vanno a comprare il disco per promuovere una certa etichetta. È evidente, c’era bisogno di venditori-acquirenti la cui unione escludesse tassativamente la possibilità di avere bambini.
Dunque, sull’operazione “idealistica” dei commessi viaggiatori cosa resta da dire? Resta da dire che non c’è niente di nuovo sotto il sole dell’industria e del marketing. Esattamente come noi ragazzi venivamo radunati dagli impiegati di una certa major discografica in un ufficio dietro piazza del Duomo a Milano e, divisi per zone, per gruppi, ciascuno dotato della sua bella lista di indirizzi di negozi, venivamo spediti in giro ad acquistare i 45 giri o gli Lp di determinati cantanti, fungendo da finti e innocenti consumatori per spingere i negozianti a rifornirsi di certi titoli. Analogamente, ma con la sofisticazione che ha il marketing nell’era digitale, dell’evento creato ad arte e che corre alla velocità della luce e che diventa virale se ben supportato dalla rete marketing (è il caso dell’agenda raimbow), a partire dall’America (vedi san Francisco) le coppie dello stesso sesso politicamente e ideologicamente motivate a pretendere un certo status sociale, sono state ingaggiate (e non so se anche pagate come le case discografiche pagavano noi ragazzi del ’56) per essere i perfetti venditori dell’intera filiera (ovuli, sperma, embrioni, eugenetica, corpi di donne eccetera) del capitalismo attivo nel segmento industriale della procreazione e manipolazione delle vita umana.
Questa è la nuova corsa all’oro. Coperta di nobiltà ideale e di amore arcobaleno. Ma non è, e non sarà mai (anche se tutte le leggi del mondo si adeguassero all’odierna legge del capitalismo) “famiglia”.
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