L’annuncio di un concerto in carcere riporta subito alla mente Johnny Cash, il re del blues che volle a tutti i costi fare un concerto al Folsom Prison, il penitenziario californiano, nel 1968. La casa discografica era contraria perché non “stava bene” suonare in quel contesto, ma le vendite straordinarie raggiunte dal disco live diedero ragione al cantautore di Nashville. Gli Shamrock Band (but really folk) non sanno se entreranno nella storia, ma di sicuro il prossimo sabato 7 luglio suoneranno al carcere di San Vittore come se fosse il loro palco più importante. Tutto è nato, come sempre accade, grazie a un’amicizia e alla proposta di un responsabile di Incontro e Presenza, la cooperativa che si occupa di assistere chi sta scontando una condanna in carcere, di regalare un momento ricreativo ai detenuti. Tra i sette elementi (Gabriele Zottarelli alla fisarmonica, Pierluca Mancuso al violino, Giorgio Natale voce e chitarra, Eleanor de Veras voce e tamburello irlandese, Andrea Natale al mandolino, Stefano Rizza al banjo, Sergio Fornasieri alle cornamuse) cresce l’attesa per un’esperienza che si preannuncia ben diversa dai concerti convenzionali a cui la band è abituata.
«Dobbiamo considerare che mentre in qualsiasi concerto il pubblico, magari già abituato alle performance, sa che di solito non si applaude durante l’esecuzione dei brani o non si interrompe, qui tutto potrebbe succedere. Sempre sotto l’occhio vigile dei poliziotti, certo, ma sarà un’ora e mezza differente dal solito. Anche scegliere la scaletta, un’operazione praticamente di routine, è stato diverso. Abbiamo sfruttato il nostro repertorio, ma ci sarà un momento particolare di riflessione, composto da tre brani che hanno come tema il carcere, luogo ricorrente nella tradizione musicale irlandese», spiega Stefano Rizza. I tre brani sono Back home in Derry, composto su un rotolo di carta igienica da Bobby Sands mentre era in prigione, poco prima di lasciarsi morire per lo sciopero della fame, The fields of Athenry, che racconta di un dialogo pieno di nostalgia tra un uomo incarcerato che verrà deportato in Australia e sua moglie, e The Auld Triangle, canto preferito da band come i Pogues o gli U2, che prende spunto dai rumori del fiume sotto il carcere che rievocano il rumore della libertà.
«All’inizio pensavamo di spargere queste tre canzoni qua e là per la scaletta, senza dare troppa importanza al tema, senza calcare la mano. Invece abbiamo deciso di rischiare con questi brani drammatici perché raccontano della prigionia in maniera toccante ma non dolorosa. Vorremmo che la loro esecuzione servisse come momento di riflessione, anche per noi che suoniamo», racconta Giorgio Natale, uno dei fondatori della band, innamorato dell’Irlanda, dei suoi pub e del suo modo tutto speciale di stare insieme quando è andato a studiare l’inglese là. «La musica irlandese arriva dritto al cuore come fosse un linguaggio universale, che sono sicuro riuscirà a conquistare anche detenuti di San Vittore che sono di paesi lontanissimi dalle verdi brughiere irlandesi».
Mezza irlandese è la voce femminile del gruppo, Eleanor, in Italia dal 2005, che racconta le sue emozioni per l’incontro di sabato con uno smaccato accento straniero. «Chissà se riusciremo a farli ballare, a spingerli a scandire il ritmo con le mani come facciamo noi. Ci è stata raccomandata la massima prudenza, ma spero di riuscire a coinvolgere un pubblico così speciale. E poi spero di spugnare tutto». Prego? Eleanor ride. «Già questo non è italiano. Volevo dire, di fare da spugna, di assorbire il concerto di sabato e portarlo con me sui prossimi palchi».