Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Deve aggirarsi nei vasti corridoi e nelle stanze del ministero dell’Istruzione di viale Trastevere un egregor insaziabile che si alimenta del movimento burocratico dinamizzato dalla coazione a riformare permanentemente la scuola italiana. Deve essere così perché altrimenti non si spiegherebbe come sia che, al di là d’ogni urgenza e reale necessità, chiunque sieda al vertice di quel dicastero si senta agito dall’irrefrenabile impulso di assestare un altro colpo “riformista” al già tumefatto corpo della povera scuola italiana.
«Sono stanca ma felice», aveva detto al termine dell’incardinamento della Buona scuola (cosiddetta) l’obliata ministra Stefania Giannini con l’espressione inconsapevole e insoddisfatta di chi è appunto agito, mentre milioni di studenti e docenti erano in piazza furenti e dopo anni le sigle sindacali della scuola unite. Esperimento, la Buona scuola, di cui persino Renzi aveva compreso l’incongruità e l’approssimazione. Eppure il caos sollevato dalla Buona scuola e quarant’anni di precedenti riforme fallimentari non sono bastati a dissuadere il neo ministro dell’Istruzione, la signora Fedeli, a desistere dal minacciare un’altra riforma, i cui cardini sono ancora imprecisati ma per grazia delle sue anticipazioni dovrebbero essere riassunti nell’estensione dell’obbligo scolastico a 18 anni e nell’imposizione del dogma dell’Erasmus a tutti gli studenti. Erasmus ormai visto come iniziazione necessaria all’accesso alla vita vera globalizzata, multiculturale, soprattutto sradicata.
Sempre Giannini nel maggio 2016 precisava, dopo un incontro con la sua omologa tedesca Johanna Wanka, che l’adattatività è il nostro destino, che «non ci sarà più spazio per la famiglia come la intendiamo oggi. La flessibilità induce le persone a spostarsi individualmente, il modello di famiglia a cui siamo abituati, che rappresenta stabilità e certezze, non esisterà più». E poi aggiungeva in crescendo e come rapita: «Dobbiamo abituarci all’idea di un mondo impostato su un modello economico di stampo americano, dove il precariato è la norma. Dobbiamo abituarci a vite con meno certezze immediate, fatte da persone che si spostano continuamente e dobbiamo incentivare i loro movimenti». Luoghi comuni recitati medianicamente e indicatori d’un vettore culturale a cui s’è giunti passo dopo passo, riforma dopo riforma.
La cultura meccanizzata
Dopo i tentativi di Malfatti e quelli poi di Luigi Gui che nel 1962, governo di centrosinistra, istituisce la scuola media unificata, il primo a osare una riforma di fondo dell’istruzione rispetto all’impianto immaginato nel 1923 da Giovanni Gentile è Luigi Berlinguer, ministro dal 1996. Berlinguer propone l’idea dell’autonomia scolastica introducendo criteri di selezione e valutazione importati di peso dalla didattica d’oltreoceano: test attitudinali, quiz, domande aperte a risposta chiusa. Tuttavia per quell’irrefrenabile impulso di smentire il predecessore, e in virtù dell’insaziabile appetito dell’egregor di cui sopra, sarà Letizia Moratti a smantellare il piano Berlinguer poi recuperato dal governo Amato ma in seguito, e in continua rincorsa, azzerato dalla ministra Gelmini del nuovo governo Berlusconi. Per il quale tuttavia la Buona scuola è sempre quella delle tre I: impresa, inglese e informatica (qualsiasi cosa voglia dire questa formula).
La cosiddetta Buona scuola di Renzi – al di là dei contenuti specifici e dei disastri procedurali prodotti nelle fasce di immissione dei docenti – non introduce novità di fondo, porta avanti il discorso dell’autonomia, dell’alternanza scuola-lavoro, della valutazione dei docenti attraverso strumenti di misurazione mutuati dal pragmatismo americano, dalla centralità didattica e dalla psicologia. Discorso ormai assunto come modello tacito da destra e sinistra, che semmai si contendono il primato della effettiva efficacia con cui esso verrebbe applicato dai rispettivi governi. Una rivoluzione permanente, si diceva, che ha fatto degli uffici scolastici (quelli che una volta erano i provveditorati) i luoghi dove Kafka si sentirebbe un dilettante dell’angoscia e dello smarrimento; che ha proletarizzato economicamente e culturalmente la classe docente, stressandola e umiliandola oltre ogni misura, imponendole il ruolo ormai generalmente accettato d’una supplenza dell’assistenza sociale; che ha reso la scuola un’entità statalista che fa retorica su produttività e cultura d’impresa, non avendo la più pallida idea di cosa siano, e intanto avendo perduto ogni autorevolezza; che soprattutto riduce la cultura non tanto a merce – ché questo è solo uno slogan – ma a procedura meccanica. Il che, nello scenario d’un futuro segnato da algoritmi e robotizzazione, non è proprio sintomo di intelligenza strategica.
La saggezza o anche solo il buon senso avrebbero dovuto indurre il ministro Fedeli a fermare dunque le macchine, a sospendere la coazione riformarola, ad affamare almeno per un po’ il mostruoso egregor che fluttua in viale Trastevere. A meditare magari sul fatto che la sventrata scuola che fu dell’immenso Gentile, al di là della sua attualità per una società di massa, conteneva e muoveva da un’immagine del mondo, aveva un orizzonte di senso e un senso della gerarchia, era il frutto d’uno dei più potenti e profondi pensieri osati nel Novecento, il portato più maturo dell’umanesimo occidentale. La domanda oggi non è tanto Erasmus e obbligo scolastico sì o no, ma è: chi o che cosa pensa l’avvenire delle nostre scuole e delle menti, delle coscienze dei giovani italiani?