A proposito dell’ennesimo “caso Natale” scoppiato a Rozzano (Mi) nei giorni scorsi, va segnalato oggi il commento firmato da Vittorio Messori per il Corriere della Sera. Il celebre scrittore cattolico vi elenca almeno un paio di questioni essenziali sollevate dalla “tediosa”, per quanto esemplare, vicenda. Innanzitutto che si tratta appunto dell’ennesimo episodio di una serie ormai trita e ritrita, appartenente al genere del «conformismo egemone»: è solo un esempio fra i tanti della nostra «vigilanza ossessiva per “non offendere” alcuno».
Tuttavia, osserva Messori, l’effetto sortito da queste «gesta politicamente corrette» è esattamente l’opposto di quello sperato. La scelta di «far finta di niente a Natale, solennizzando invece a gennaio una neutrale “Festa dell’Inverno”», infatti, non apparirà ai musulmani come un beau geste («per giunta non richiesto») di cui essere grati, ma al massimo come una ragione in più per disprezzare «gente pronta a nascondere le proprie tradizioni, anche religiose, per una piaggeria gratuita».
Di più: «Il rinunciare alle nostre prospettive e alle nostre tradizioni non porta alla pace. Può portare, invece, alla guerra», continua Messori, poiché non solo fra i terroristi dell’Isis, ma anche in «altre parti (non per forza armate, ndr) dello sconfinato mondo islamico», è orma chiaro che «nella nostra incuranza religiosa vi sia la conferma che siamo pronti alla resa, maturi per l’islamizzazione, con le buone o con le cattive».
Del resto non è una visione infondata. Scrive Messori: «In effetti, quale Natale come nascita di Cristo può difendere un Occidente – europeo e nordamericano – che ha da tempo provveduto a cancellarne il nome?». In effetti, cosa è diventato oggi il Natale in Occidente? «Siamo giusti», conclude Messori, «perché prendersela troppo con il rappresentante di una scuola dove insegnanti e allievi – alla pari dei loro compagni dell’intero Occidente – in gran parte hanno gettato alle spalle il senso e il messaggio di questa Nascita? In nome di quali “valori” dovremmo schierarci a difesa, noi, cittadini di una Europa che ha rifiutato di riconoscere che le sue radici stanno – non solo, certo, ma in gran parte – in quei venti secoli di storia trascorsi dal parto di Maria nel villaggio di Giudea?».
Va detto comunque che la visibilità che ha avuto il “caso Natale” di Rozzano, al di là del circo che è subito montato intorno ai fatti, è il segnale di un disagio sano, esile residuo di un’esigenza di senso che – per quanto confusa e inespressa – ancora sopravvive in tante persone verso una delle nostre tradizioni più importanti.
Cos’è dunque il benedetto Natale che siamo chiamati a “difendere”? Nessuna spiegazione ci sembra più adeguata della lettera inviata da don Luigi Giussani a Repubblica il 27 dicembre del 1997, che riproponiamo di seguito:
Caro direttore, leggendo Gramsci avevo scoperto questo pensiero: «Un periodo storico può essere giudicato dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa… Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente» (A. Gramsci, Quaderni, XXVIII).
Sembra un canone della Chiesa cattolica. Gramsci dice il vero: la grande alternativa per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione. L’ideologia nasce in qualsiasi momento come novità che si impone a prescindere dal passato (e questo non può che diventare un’inevitabile possibilità di andare contro il passato). La tradizione è proprio nella eredità del passato che trova certezza per il presente e speranza per il futuro. Chi pretendesse di distruggere il passato per una affermazione presuntuosa di se stesso non amerebbe né l’uomo né la sua ragione. E, infatti, un presente così ridotto finisce in «nulla» (nichilismo), cedendo l’uomo alla tentazione di credere che la realtà non esista. E questo è come un veleno instillato nelle vene dell’uomo dal padre della menzogna: una volontà di negare l’evidenza che qualcosa c’è.
Ora, proprio dal passato giunge una notizia: il Mistero, ciò che i popoli chiamano «Dio», ha voluto comunicarsi a tutti gli uomini come un uomo, dentro un pezzo di tutta la realtà. Si chiama «Natale» l’iniziale attuarsi del metodo con cui il Mistero si manifesta comunicandosi nella vita: l’incarnazione di Gesù di Nazareth, come risposta all’attesa di ogni cuore umano in tutti i tempi, che ha avuto la prima e più dignitosa intuizione nel genio ebraico.
Nella sua concreta umanità Gesù non poteva vivere se non in una casa dove c’era un letto, dove c’erano tavoli e sedie, dove c’erano un padre e una madre: la casa di Nazareth, una presenza integralmente umana in cui c’è Dio – questa è l’origine della «pretesa» cristiana –, la Bibbia la chiama «dimora » o «casa di Dio». E noi sappiamo quanto gli uomini del nostro tempo cerchino anche inconsapevolmente un luogo in cui riposare e vivere rapporti in pace, cioè riscattati dalla menzogna, dalla violenza e dal nulla in cui tutto tenderebbe altrimenti a finire. Il Natale è la buona notizia che questo luogo c’è, non nel cielo di un sogno, ma nella terra di una realtà carnale.
Negare la «possibilità» che questo sia vero in nome di un preconcetto non è da uomini ragionevoli. Se, infatti, la ragione può intravedere la possibilità di un significato dell’infinita fatica del vivere – e per chiunque almeno in qualche momento questo è stato evidente –, è più dignitoso per l’uomo cercare questo significato o rinunciarvi, preferendo quella che Pasternak chiamava «la sterile armonia del prevedibile», cioè una vita ultimamente annoiata?
C’è un verso di Rainer Maria Rilke da cui parto spesso per una meditazione su di me: «E tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace/ un’onta, forse, un po’ come si tace/ una speranza ineffabile». Se l’uomo guarda a se stesso, ha vergogna e noia, ha vergogna fino alla noia, eppure non può negare l’evidenza di un impeto irriducibile che costituisce il suo cuore come tensione a una pienezza, a una perfezione o soddisfazione.
Io credo che Dio si sia mosso proprio per essere risposta a questa realistica percezione – a mio avviso l’unica realistica percezione che l’uomo possa avere di se stesso se si pensa con attenzione e tenerezza materna –, all’uomo che ha vergogna o noia di se stesso. Per questo io umano che trova in sé, da una parte limiti coi quali è connivente e, dall’altra, quel grido che è nel suo cuore, quell’attesa che è nel suo animo, Dio si è «mosso», per liberarlo dalla noia di se stesso e dal peso di quel limite che si trova dentro in tutto quello che fa.
Per questo dico spesso che il cristianesimo ha una partenza pessimistica circa l’uomo – non per nulla parla di peccato originale come del primo mistero senza il quale non si spiega più niente della contraddizione in cui l’uomo cade inesorabilmente –, ma finisce in un ottimismo profondo e impegnativo, poiché Dio ha preso la realtà di un uomo vero, un uomo concepito nel ventre di una donna, che si è sviluppato come un infante, un bambino, un fanciullo, un adolescente, un giovane, fino a diventare centro di attenzione della vita sociale del popolo ebraico, fino a trascinare le folle e fino ad averle contro di sé per l’atteggiamento di chi aveva il potere in mano, fino ad essere crocifisso, ucciso.
E fino a risorgere dalla morte, per una pietà profonda, come di padre, verso la situazione disperante dell’uomo. O come «grazia» dell’onnipotente Mistero.
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