Dubbi non ve ne sono più: Ben Harper è il legittimo erede dell’arte blues di Marvin Gaye e di tutta l’epopea del rock, che ha attraversato il decennio dei ’60 e il suo culmine, rappresentato dalla parabola breve ma intensa e “rivoluzionaria” del grande Jimi Hendrix. Fin dal primo album, uscito nel 1993, Harper ha dimostrato una versatilità e una non comune vena creativa che, piantate nelle radici della tradizione soul, gli ha permesso di tuffarsi nel “mare magnum” delle atmosfere black, senza mai snaturarsi nella routine seriale. Con la sua voce, la sua fida slide guitar, sostenuto da valenti session men, l’artista californiano, da quasi vent’anni tocca il cuore dei suoi ascoltatori, in uno splendido slalom tra pop, folk, spiritual, ritmi caraibici e forti richiami al più puro rock-blues, coinvolgendoli con testi mai banali, tra quadri di realtà quotidiana e vere e proprie preghiere cristiane.
Senza mai deludere Harper non si adagia con scontatezza sui precedenti lavori, ma vive una perenne ricerca musicale, confermata da due album in particolare: la galleria di gospel, composti ed eseguiti insieme ai Blind Boys of Alabama (“There Will be a light”) e lo splendido esempio di album analogico “Lifeline”, galleria di brani senza tempo, né schemi. “Give till it’s gone”, ultimo nato in casa Harper, è l’ennesimo tassello di questa splendida carriera: scritto in condominio con la band che lo accompagna per l’occasione, vanta la collaborazione del “beatle” Ringo Starr e di Jackson Brown, e spazia tra appassionate ballate con tanto di orchestra classica e torrenziali inserti chitarristici che rendono sulfureo il suono, rimandando alle spericolate jam session di Woodstock e dintorni. E ancora una volta la scommessa è vinta, ancora una volta l’alto artigianato di Harper sfida i mostri sacri e ci regala un’altra perla, riconciliandoci con il vero rock, facendoci uscire dallo stordimento quotidiano della musica di plastica.