Anticipiamo un articolo che uscirà sul prossimo numero di Tempi in edicola da giovedì 4 febbraio (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il cartello più significativo esposto al Circo Massimo di Roma il 30 gennaio riportava una somma: 2+2=4. Un manifesto chestertoniano del buon senso, dell’ovvio, di «spade sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Un cartello che faceva tornare alla mente un passaggio di 1984 di George Orwell, quello in cui nella stanza 101 del Ministero dell’Amore, il gerarca O’Brien tortura il protagonista Winston Smith.
«Ricordi», riprese a dire, «di aver scritto nel tuo diario: “La libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro”?» «Sì» rispose Winston. O’Brien gli voltò le spalle, quindi sollevò la mano sinistra, tenendo il pollice nascosto e le quattro dita tese. «Quante sono le dita che tengo alzate, Winston?» «Quattro.» «E se il Partito dice che le dita non sono quattro ma cinque, quante sono?» «Quattro.» La parola terminò in un rantolo di dolore. L’ago del quadrante era balzato a cinquantacinque. Ora il corpo di Winston grondava sudore. L’aria gli entrava a forza nei polmoni e ne fuoriusciva sotto forma di lunghi gemiti che non riusciva a trattenere neanche stringendo i denti. O’Brien lo guardava, con le quattro dita ancora tese. Riportò la leva alla posizione di prima. Questa volta il dolore si attenuò solo di poco. «Quante dita sono, Winston?» «Quattro.» L’ago salì a sessanta. «Quante dita sono, Winston?» «Quattro! Quattro! Che altro posso dire?» L’ago doveva essere risalito di nuovo, ma lui non lo guardò. Era tutto preso dalla visione delle quattro dita e di quel volto duro e severo. Le dita gli si stagliavano davanti come altrettanti pilastri, enormi, indistinte. Sembravano vibrare, ma non c’era dubbio: erano quattro. «Quante dita sono, Winston?» «Quattro! Basta, basta! Ma perché non ti fermi? Sono quattro, quattro!» «Quante dita sono, Winston?» «Cinque! Cinque! Cinque!».
George Orwell, 1984
Hanno scritto che il popolo del Family Day è sceso in piazza per “difendere la famiglia tradizionale”, e questa è una definizione vera ma riduttiva. In realtà, tutta quella fiumana di gente s’era alzata presto la mattina, aveva rotto i salvadanai, aveva fatto i panini, aveva preparato lo zaino con acqua, tovaglioli, posate di plastica, ombrello pieghevole (non si sa mai), s’era organizzata in comitive con treni, auto e persino aerei, aveva raggiunto il Circo Massimo a piedi, in metrò o in autobus, era scivolata scendendo l’avvallamento del prato, imprecato, chiesto scusa per aver imprecato, aveva ascoltato, applaudito, cantato, baciato i bambini, sgridato i bambini, sventolato gli striscioni, le bandiere, i cartelli, aveva urlato, applaudito di nuovo, fischiato, fatto foto, selfie, video, raccolto le cartacce, le bottigliette di plastica vuote, ripiegato le tovaglie di plastica negli zaini, perso qualche marmocchio nella calca, ritrovato qualche marmocchio sotto il palco, menato il marmocchio, comprato il gelato al marmocchio frignante; tutta questa fiumana di gente, dicevamo, s’era data appuntamento a Roma per uno scopo – se volete – molto più semplice, banale, quasi “più scemo” che non difendere la famiglia tradizionale. Erano lì per dire che due più due fa quattro. Che è un altro modo per affermare l’evidente, il reale, il solare.
«Nel family day organizzato dalle associazioni più conservatrici si è ritrovata l’Italia che appartiene al passato».
Norma Rangeri, Il Manifesto
Passato? Due più due ha sempre fatto quattro dai tempi di Adamo ed Eva, lo sanno anche i bambini. Uno di loro, avrà avuto dieci anni, faccia da canaglia, occhi vispi, che ha trascorso tutto il pomeriggio a rifilare schiaffoni ai coetanei con le manone gonfiabili di Tempi, sulla via del ritorno, tutto allegro per il bel pomeriggio, ha chiesto gongolante alla madre: «Mamma, ma cosa siamo venuti a fare oggi?». «A dire che i bambini nascono da una mamma e un papà». L’ha guardata, giustamente, perplesso. E dovevamo venire fino a Roma? D’altronde qualche scemo dovrà pur ricordarsi che due più due fa sempre quattro, visto che c’è in giro tanto gente che vuole convincerci che i figli possano essere selezionati e comprati, e che tu sei solo un medioevale o un razzista se osi esprimere dubbi in proposito.
«Infatti ciò che è accaduto a Roma, a cura della Chiesa cattolica, è uno straordinario esercizio di egoismo antico e barbaro fondato sulla celebrazione della fertilità di maschi e femmine, che si dichiara minacciato dal desiderio appassionato delle famiglie gay (che, sia chiaro, nel loro caso non è un diritto) di avere un bambino da stringere e crescere come un figlio, magari ottenuto da una donna che non è di famiglia e dunque è una ladra o una schiava che vende il piccolo a un mercenario».
Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano
A vederla il giorno dopo dalle immagini televisive dall’alto, o dalle fotografie pubblicate sui quotidiani, la folla di gente era impressionante. Ma a vederla dal vivo, coi piedi ancorati al suolo, tra passeggini e seggiolini, era più interessante. Ci si poteva così rendere conto che questo ribattezzato popolo di “barbari egoisti” aveva proprio tutte le caratteristiche della gente normale che si vede tutti i giorni in giro per strada e nei supermercati, fuori dalle scuole e dentro gli stadi, i cinema, le pizzerie. Proprio quella lì, uguale uguale. Madri perennemente indaffarate, padri a rimorchio che cercano di pavoneggiare una qualche autorità sulla prole, bambini simpatici, antipatici, chiassosi, addormentati. Nonni – duepuntozero o vecchio stampo – cugini, zie, preti, suore, seminaristi, adolescenti, coppiette, single, omosessuali.
«I gay che oggi sfilano al Family Day sono paragonabili a quegli ebrei che durante il periodo dell’Olocausto si iscrissero al partito nazi-fascista. Commettono un errore clamoroso. Mi fa specie che gli organizzatori abbiano addirittura sbandierato la presenza di persone omosessuali alla manifestazione. Le persone che si schierano dall’altra parte le abbiamo sempre viste. Il mondo è fatto anche di venduti e di traditori. Sono persone infelici. Tradiscono la propria natura, i propri simili, è la verità».
Franco Grillini, presidente di Gaynet
C’erano tanti giovani. Giovani col piercing sul labbro e nel naso. Ragazzi coi pantaloni larghi, le scarpe grosse e le stringhe slacciate. Per il pratone del Circo Massimo ad un certo punto s’è visto un negrone meraviglioso con un fisico da Aiace Telamonio e una cresta che sfidava il cielo. Quattro ragazzini hanno fatto una pallina con la carta stagnola e hanno giocato il derby con un giorno d’anticipo. S’è visto un tizio che sbuffava, un altro che ha giocato al cellulare tutto il tempo, un altro che ha dormito dalle due alle cinque, giusto il tempo della manifestazione. C’erano anche loro al Family day.
«Un ritrovo di persone all’aperto, in cui preti, leader politici divorziati, separati, risposati, frequentatori di prostitute, dicono come è bella la famiglia tradizionale».
Luciana Littizzetto a Che tempo che fa
Sì c’erano anche i politici e quelli di Repubblica hanno scritto che quando hanno cantato “Mamma” hanno preso qualche stecca. E, sì, c’erano anche i divorziati, i risposati, quelli che la famiglia la tengono attaccata col mastice, che magari si tradiscono (ma, poi, magari, si perdonano), che non sono mica un fulgido esempio di coerenza morale. E allora? Non era una piazza di gente che profumava d’incenso o di mughetto. Non ha mai preteso di esserlo, non sono mica così rincoglioniti. Ma non sono nemmeno così moralisti da pensare che serva avere la patente per dire che i figli nascono da due esseri sessualmente diversi, che non si comprano, che non si fabbricano. Che un figlio di buonadonna possa amare sua madre non è una bestemmia, è un miracolo. Due più due fa sempre quattro, che lo dica il premio Nobel o l’assassino.
«Quando si impedisce all’amore di avere una forma riconosciuta dalla comunità, gli si impedisce il diritto di esistere. Questo oggi è il Family Day, una manifestazione contro il diritto di amare che costringe alla clandestinità».
Roberto Saviano, su Facebook
Hanno detto e scritto che era una piazza di ignoranti, di gente rimasta indietro, che non sa stare al passo coi tempi. Popolino che ha perso il treno, e che ora pretende che tutti scendano. Chissà, forse hanno ragione loro. Si vede che tutti gli intelligenti come Eugenio Scalfari che sogna di re-incarnarsi in un albero o Beppe Grillo che sniffa scie chimiche erano a casa a studiare la quadratura del cerchio.
Invece, tra gli ignoranti del Family Day c’era gente che discuteva dell’ultima intervista di Sylviane Agacinski, qualcuno che dissertava sulle Considerazioni del 28 marzo 2003 del cardinale Joseph Ratzinger, qualcun altro che s’entusiasmava per certe prese di posizione della lesbica laica libertaria Camille Paglia. Questo popolo di beoti, retrivi e cavernicoli, aspettando l’inizio della manifestazione ingannava il tempo informandosi, scambiando opinioni e pubblicazioni. Mamme equilibriste leggevano libri reggendoli con una mano mentre con l’altra spremevano tubetti di maionese nei panini dei pargoli.
«Sono slogan da Italietta anni Quaranta, omofobica e sessista, adatti ad un Paese che non esiste più da tempo e che non ha nessuna chance storica di tornare d’attualità».
Marco Marzano, Il Fatto Quotidiano«I nuovi/vecchi crociati che hanno riempito il Circo Massimo di Roma rappresentano il “no” alla libertà degli altri».
Norma Rangeri, Il Manifesto
Tutta questa gentaglia, questa marmaglia di bigotti, gente da sagrestia poco raccomandabile aveva speso dei soldi, aveva buttato via del tempo prezioso, un weekend che avrebbe potuto essere meglio impiegato in qualche centro commerciale o in qualche centro benessere, per venire a Roma, testimoniare, metterci la faccia e dire che due più due fa quattro. Volevano solo dire che un uomo e una donna sono un uomo e una donna e questo è un fatto, non dipende da loro. Che la legge Cirinnà dovrebbe essere una legge e cioè qualcosa che rispetta la realtà e non che la modifica secondo desideri dettati dall’istinto. Che la vita nasce dall’incontro tra diversi, e questa è una meraviglia, non una sciagura. Non erano lì solo a difendere la famiglia, erano lì a difendere la realtà. Perché loro sono «tra quanti hanno visto, eppure hanno creduto».
Foto Ansa