Milano, le sei del mattino. È ancora buio. Appena fuori dal portone affondo nell’abbraccio della nebbia. Fitta, come da tempo non la vedevo a Milano; è calata sulla città insieme a un freddo nuovo, umido, insinuante. Camminano intabarrati, curvi, i rari viandanti dell’alba. In corso Sempione la luce dei lampioni trema nella cortina lattiginosa. Sui platani allineati dal Parco a piazza Firenze le foglie grigie e avvizzite stanno immobili: non c’è un filo di vento, e loro se ne restano ancora aggrappate ai rami, illuse di esser vive (finché una folata brusca di vento non verrà, a smascherarle).
La nebbia a Milano ha un impercettibile odore, leggermente acre, pungente – sono forse le polveri sollevate e fluttuanti in quel velo vaporoso? Mi piace stringermi nel cappotto, serrare la sciarpa attorno al mento; incalzata da quella gentile anima di fantasma, che accarezza e raggela.
L’auto con la radio accesa e le spie familiari del cruscotto questa mattina è una tana tiepida. Fuori scorrono offuscate le luci delle auto e dei semafori; preme la nebbia ai finestrini, malvolentieri si ritira davanti ai vetri serrati. E sì, è proprio un assedio, come di una straniera, quello alla città, stamattina: la vedi che da fuori, sui viali che corrono verso la periferia, preme, cercando un varco. Sbucano dai caselli delle autostrade colonne di auto con i fari come sbarrati occhi lucenti; dietro di loro c’è solo un muro bianco, e sembra che si materializzino dal nulla. E i grattacieli, quelli nuovi, tutti di vetro, a Porta Nuova? Ne vedi i primi piani e poi sotto ai tuoi occhi si dissolvono. (In uno strano gioco di disvelamento: anche ciò che non si vede, dunque, talvolta è reale). E tremi fra te a pensare a quanto freddo deve fare lassù, in cima a quella gru che già in questo primo incerto chiarore ruota il suo lungo braccio metallico sui cantieri; come allo sguardo del manovratore, solo in questa caligine candida, il mondo debba apparire lontano, o forse scomparso.
Le campane della chiesa di via Farini battono le ore, ma benché siano vicine ne arriva un’eco remota, ovattata. È il mistero della nebbia: nasconde ciò che è accanto, e suggerisce che ciò che è invisibile possa in realtà essere vicino.
Ma qui in città la nebbia in fondo gioca, già sapendo di avere perso la sua sfida. Per incontrare la nebbia, quella vera, bisognerebbe spingersi in giù, verso Pavia, verso Lodi; lungo le strade di campagna affiancate dalle rogge, dove dall’acqua immobile la nebbia come vapore sale e si gonfia e annienta l’orizzonte. Lì sì, nel suo regno, la nebbia trionfa nella sua ineffabile opaca compattezza; se appena la cappa si apre, lascia intravedere un’ombra di sole mortalmente pallido, estenuato. Ma subito la cortina di latte serra le fila; e tutto si fa muro, candore, nulla. Se si tace, si sente solo il lento fiato della nebbia, regina.