Tendere la mano lì dove c’è il bisogno
In occasione della XXX Giornata mondiale del Malato, papa Francesco ha inviato un messaggio a tutti gli operatori sanitari («Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso», Lc 6,36, Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità). A commento della parole del Pontefice e per gentile concessione dell’autore pubblichiamo un estratto della prefazione del libro “La cura è relazione” (Lindau, 2018).
Sono i gesti a fare la storia. Dentro di essi sussistono i presupposti di una comunità, le origini del nostro dirci uomini. Le società moderne, mutilate dei loro “antefatti”, sembrano raccontarci un presente perpetuo, privo di legami con il passato, con la genesi stessa della natura umana.
Ci siamo dimenticati dell’uomo come essere sociale, come soggetto di relazione e scambio. Sopravvive l’economico, dentro una scala di priorità che ha inteso utilizzare anche il termine “valore” quale oggetto di contrattazione. Non abbiamo dimenticato il passato in senso cronologico, abbiamo ceduto all’oblio del concetto antropologico di noi.
Così viviamo l’oggi come una vetta da scalare dove l’orizzonte è puro artificio, le pendici una nebulosa costruzione astratta ed il crinale da raggiungere una mera ipotesi immaginifica. Eppur andiamo! Veloci, perché anche il tempo è materia di scambio, di baratto, di negoziazione. Nel cammino ci perdiamo le persone e con esse i gesti che le caratterizzano come tali. Sopravvivono gli strumenti, i metodi del fare, le edificazioni, gli orrori e talvolta la compassione. Siamo come monadi protese a sé stesse, ripiegate nell’alcova di un “io” che ha perso la capacità di declinarsi in prima persona plurale.
D’improvviso ci si accorge della solitudine, la si percepisce nell’impronunciabilità di talune parole. Ci si accorge che si può morire, ci si può ammalare, si può anche non guarire più. Non ci sono più i gesti, talmente tanta voce ha nascosto il canto, sono state cancellate anche le ultime tracce di coloro che ti chiamavano per nome. Si diventa “utenti”, “pazienti in fase terminale”. E non ci sono più volti ad accogliere il male, i cortili dei vicini sono diventati palazzi e l’anziana vicina di casa, “sepolta viva” come te, fatica a prendersi cura anche di sé stessa.
È tutto talmente ovattato da provocare paura e tormento. Ci si scopre deboli, fragili, precari, come stupendosi per la prima volta che l’acqua bagna ed il sole brucia. E non si sa neppure più come chiedere aiuto. “Aiuto”. La realtà, accanto e attorno, ti sfiora, disinteressandosi del tuo passo zoppo. E non ce la puoi fare da solo. Nessuno è in grado, neppure chi ogni giorno affronta le tempeste della competizione, del conflitto in punta di diritto, dei sassi da frantumare o delle azioni da spostare in borsa. Non c’è preparazione alla vita. E mentre un tempo, l’anziano veniva accudito a casa, spesso malamente, ma dentro un rapporto, in compagnia di qualcuno che di lui si accorgeva, che di lui ricordava persino i colori dei vestiti da lavoro e quelli della domenica, nell’aia contadina con le donne a far da veglia. Ora il pianerottolo è deserto, chiusa la porta, mute le voci delle genti.
Eppure, oggi la metà di quelle persone che morivano, sempre per il medesimo male, possono essere curate. La scienza, dentro il mondo che corre, è riuscita a giungere laddove sino a vent’anni fa neppure si osava pensare. Le Istituzioni si sono organizzate, tra conti e vincoli da rispettare, per garantire il miglior compromesso sul possibile. E si sono fatte avanti le domande, perché alla fine la sofferenza, prima ancora che risposte, chiede che al dubbio sia lasciato lo spazio per lievitare.
Quali bisogni si palesano all’orizzonte in questo costante presente? Come è possibile rispondere alle nuove necessità dei singoli e alle realtà dei nuclei familiari in progressiva scomposizione, composizione e mutamento, senza demandare alla medicalizzazione istituzionale ogni risposta possibile?
Il decadimento fisico e cognitivo, tipico dell’anzianità o della malattia che non conduce più a repentina morte, spostandosi costantemente verso una longevità sconosciuta sino al secolo scorso, pone, in tutta la sua evidenza, nuovi quesiti, altri interrogativi.
Ci sono parole che chiedono di essere pronunciate, che chiedono campo, voce, la possibilità di una loro riconciliazione con gli umani. Empatia, accompagnamento, relazione. Esse vivono sottotraccia, sottaciute, sconosciute, sino a quando la macchina della modernità si inceppa, sino a quando il singolo fuori dalla moltitudine improvvisamente vi inciampa. È lì che il cortocircuito diventa evidente, la domanda lancinante, il bisogno senza parola. Anche quella società che sembrava non badare al singolo, essa che appare immune, ne subisce collettivamente le conseguenze. Anche in termini di costi. Perché una famiglia malata, non è più un fatto personale, non è più un incidente confinabile nell’intimità di una stanza. Essa diventa problema sociale, intoppo per il meccanismo, pietra d’intralcio per tutti: istituzioni, medicina, scienza, politica, comunità.
Non ci sono teorie salvifiche, costruzioni accademiche capaci di assolvere, non è la costruzione della città ideale ciò cui bisogna aspirare, ma tendere la mano laddove i territori, dal basso, in modo sussidiario sono riusciti a declinare, seppure dentro un percorso formale ed anche burocratico, quelle tre parole in disuso: empatia, accompagnamento, relazione.
Foto Ansa
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