Caro direttore, eppure c’è un grande silenzio. A due settimane dalla morte di Samuel Paty, docente di storia e geografia, assassinato in maniera brutale e vigliacca, la Francia piange – ancora una volta – la morte di suoi tre connazionali uccisi, questa volta, in una Chiesa. Eppure c’è un grande silenzio. Ho cercato tutto il giorno tra gli articoli di giornale, i post su Facebook, le grandi catene virali che si usano come immagine del proprio profilo social, ho cercato, dicevo, quella frase che ancora oggi (e chissà per quanto) non trova spazio nell’opinione pubblica europea: “Je suis chrétien (Sono cristiano)”, siamo tutti cristiani. Suona davvero strano, vigliacco e umiliante che tutta l’Europa, fondata sul libero arbitrio e sull’umanesimo cristiano – dal quale poi, e questo o lo si nega o lo si ignora, gran parte dell’Illumisimo rivoluzionario francese ha mutuato i propri valori – non riesca a pronunciare quella frase “Je suis” quando le vittime sono “presunti cristiani”, gente che si trova in Chiesa o addirittura sacerdoti.
Eppure c’è un grande silenzio. Ogni giorno nel mondo milioni – MILIONI – di cristiani vengono perseguitati per la loro fede, molti uccisi, i più umiliati. Non risuoneranno le trombe della vulgata comune (sempre pronte a stracciarsi le vesti per chi è diverso e lontano, e mai per chi è troppo vicino e uguale a noi) al grido “Je suis chrétien” quando a morire sono persone che in maniera evidente professano questa fede. Non è un caso isolato. Non uno slogan è stato speso per Jacques Hamel, «uomo di pace e sacerdote coraggioso», che all’età di 90 anni è stato sgozzato nel luglio del 2016 nella sua chiesa di Saint- Etienne-du-Rouvray, vicino a Rouen, dallo stesso tipo di persone che ieri hanno uccisi i fedeli di Nizza. Non uno slogan è mai stato speso per le centinaia di migliaia di cristiani (e altre minoranze religiose) che venivano massacrate dagli squadroni islamisti quando l’Isis era all’apice del suo potere. Sacrosanti e assolutamente necessari, davvero, tutti gli slogan spesi in questi anni di terrorismo dal “Je suis Charlie” al “Je suis Prof”, ma ripeto, ovunque c’è un grande silenzio e, purtroppo, la coscienza comune europea, ormai flaccida nel suo intricato relativismo e prigioniera di uno “strano senso di colpa”, ne è il megafono più rumoroso.
Di fronte all’ennesima carneficina, la Francia, ma in generale tutta l’Europa, formula – ancora una volta – la monolitica domanda, alla quale sembra davvero difficile dare una risposta: come fermare, una volta per tutte, il terrorismo fondamentalista di matrice islamista? Premessa fondamentale: dico islamista e non musulmano perché la differenza, per quanto apparentemente sottile possa sembrare, è in realtà grande e importante da marcare. L’islamismo, infatti, viene usato correntemente per indicare i militanti di movimenti radicali di matrice islamica che sfociano spesso nel terrorismo; l’aggettivo assume, quindi, una connotazione negativa, che invece è estranea al termine “musulmano”, che invece, riguarda la sfera intima della fede. Basta essere attenti osservatori e buoni conoscitori dell’argomento per comprendere che, ora come ora, l’islam europeo vive una profonda crisi di identità dalla quale fatica a uscire ma che, sia con l’onestà intellettuale propria di chi ammette di avere un problema di carattere endogeno che deve curare sia con il giusto aiuto da parte di “altri”, alla ne potrà superare.
Credo che un onesto punto di partenza per affrontare questi episodi violenti e per arrivarne alla risoluzione sia il porre fine alla patetica scusa che sminuisce (solo per alcuni però, eh) il male violento a una pura e banale forma di disagio psichico. Se così fosse, questo principio bisognerebbe applicarlo a tutti i dittatori della storia – dal signor Mussolini, al signor Hitler, da Stalin a Mao – facendoli passare, alla fine, per dei disadattati sociali. La storia ci dimostra, invece, che il male spesso è più lucido, razionale e “sano clinicamente” del bene. Di fronte a questi attentati di matrice religiosa fondamentalista l’opinione pubblica, i politici, gli opinionisti da salotto televisivo si interrogano sulle ragioni logiche che stanno alla base di queste violenze. E ogni volta si ripropone la spinosa questione della “fede”. L’Europa, sbagliando, continua con boriosa arroganza a declinare le religioni a un “fatto storico”, ormai superato, «roba da Medioevo», ignorando l’importanza che esse rappresentano per milioni di persone nella propria quotidianità e deridendole ogni qual volta se ne presenti l’occasione. E per questo motivo, la coscienza europea non solo non riesce più a comprendere il cristianesimo ma non riesce neppure a capire e a gestire l’islam nelle sue molteplici sfumature.
Per far luce sulla questione del rapporto tra “fede” e “ragione” in seno all’estremismo religioso, bisogna rileggere il memorabile, onesto e coraggioso discorso che Benedetto XVI fece il 12 settembre 2006 nell’Aula magna dell’Università di Regensburg in cui l’allora Pontefice parlò anche dell’islam e del jihad. Deriso, sbeffeggiato, accusato dai media e da un’opinione pubblica culturalmente rasente lo zero (alla fine la storia gli darà ragione, come sempre accade ai Grandi del passato), papa Ratzinger con fine e onesta intelligenza, in merito all’estremismo islamico, si limitò a chiarire che: non agire secondo ragione è, alla fine, contrario alla natura di Dio (sintesi estrema che poi altro non è che il cuore della questione, invito a rileggere il discorso facilmente reperibile online). Quindi la fede vissuta senza ragione non è fede, è qualcos’altro, ideologia e fanatismo, ma non è fede. E questo principio deve essere il sostrato di tutte le religioni. Solo alla luce di queste affermazioni allora si può comprendere il problema della violenza nel fanatismo islamico considerato ideologia e non religione.
Non sono un teologo, non ne sarei capace e non ho neppure la pretesa di esserlo, ma limitandomi a cercare di capire, sono convinto che solo così si possano porre basi salde per un vero dialogo interreligioso che, in stato di attesa ormai da 1400 anni, oggi appare assolutamente necessario. Il dialogo tra religioni può esserci soltanto se esse si riconoscono sulla base di principi ragionevoli che ammettono sia l’una l’esistenza dell’altra sia “il proprio essere intrinsecamente ragionevoli”, e per ragionevoli si intende fatte per l’uomo, perché l’uomo razionalmente possa comprenderle e viverle. Pertanto, tutto ciò che esclude la ragione sfocia nel fanatismo e nelle ideologie irrazionali e si sa, le ideologie – come è sempre stato detto dai grandi teologi – nulla hanno a che vedere con le religioni e sono alla base delle dittature violente. La Chiesa torni una volta per tutte a parlare di cose serie e scomode ma estremamente necessarie; non si limiti, solo in occasione di queste stragi, a formulare timidi discorsi di una banalità imbarazzante e degna di rimprovero.
Il fascio-islamismo di cui oggi tanto si parla, ammettiamolo, è stato lasciato proliferare nelle nostra società da trent’anni a questa parte senza alcun controllo, e, ora, rilascia i suoi frutti più marci. Nell’ultimo decennio poi, si è evitato il più possibile di creare un serio dibattito – se non in maniera limitata in occasione delle stragi – di una tematica tanto importante quanto delicata qual è l’islam europeo. Questo dibattito, spesse volte, non è stato intavolato per paura della gogna mediatica che avrebbe potuto scatenerei il politicamente corretto che, alla ne, è degenerato nel fanatismo ideologico. Questo “politically correct” senza costrutto – di cui la sinistra europea si è fatta fieramente portavoce, motivo per cui proprio la sinistra oggi non riesce a parlare di musulmani e islamismo – sta uccidendo il pensiero critico giorno dopo giorno e ci impedisce di indagare, chiarire e risolvere questioni su cui è necessario far luce, a maggior ragione in una società ormai multiculturale e globalizzata come la nostra. Quando si ha paura di parlare di un qualcosa è perché si percepisce quasi il pericolo che l’opinione pubblica ti possa attaccare, categorizzare e, infine, distruggere. Potrà non piacere, potrà non essere “politicamente corretto”, ma ciò che conta, alla fine è l’onesta intellettuale: per affrontare un problema prima bisogna dargli un nome e non basta più limitarsi a condannare il fanatismo di «qualsivoglia matrice», non è sufficiente. Bisogna avere il coraggio di squarciare il velo patetico del “politicamente corretto”, ritornando così a dare un nome alle cose.
L’islamismo dilaga in Europa – sopratutto in Francia, Inghilterra, Olanda, Belgio, Svezia, Germania, e, seppur meno evidentemente, anche in Italia – e si presenta come un virus pericoloso, pronto a intaccare le cellule buone e sane della società, primi tra tutti i più giovani, i poveri, gli abbandonati delle periferie della grandi città. Costoro, rifugiandosi nell’islam radicale e in una visione vanamente gloriosa dell’esistenza, trovano senso ad una vita che, purtroppo, nella maggior parte dei casi, sarebbe priva di aspirazioni e riconoscimenti. È lì che bisogna agire, sui giovani musulmani di seconda generazione, sono loro il terreno sul quale si gioca la partita più importante. D’altro canto l’islamismo europeo è tanto più difficile da sconfiggere rispetto al terrorismo nei paesi mediorientali, perché dilaga camuffato tra di noi. In Francia, ad esempio, i fondamentalisti ormai sono riusciti ad infiltrarsi nelle scuole, nelle attività commerciali, nella politica e anche nell’esercito e nella polizia.
Il parallelismo con il mondo medievale, che molto ha da insegnare, sorge spontaneo. In epoca medievale, ad esempio, l’istituzione ecclesiastica era spesse volte messa in crisi più dagli eretici che dai “saraceni”, i musulmani. Questi sì rappresentavano una minaccia che però risultava facilmente circoscrivibile e localizzabile nei territori orientali, e non europei, e quindi più facili da combattere. Gli eretici erano in realtà il vero grattacapo della Chiesa, perché erano perfettamente inseriti nella società cristiana, e quindi erano molto più di cili da contrastare. Lo stesso accade oggi. Finché l’Isis o Al-Qaeda era circoscritto alla Siria, all’Iraq e all’Afghanistan, allora era “più facile” (per modo di dire) combatterlo ed eventualmente sconfiggerlo; quando, invece, queste realtà sono dilagate in Europa nei più diversi modi, allora la sfida si è fatta grande, complessa e ambigua.
Dicevo, il problema dell’islamismo nell’Europa occidentale. Qui si apre un’altra tematica che credo valga la pena di affrontare. La questione della “maggioranza e minoranza”. Spesso quando si parla di queste vicende si ripete il solito ritornello, “eh, ma la maggioranza è moderata e pacifica”: nulla di più vero! Tuttavia, se si guarda al passato, il problema non erano le maggioranze ma le minoranze arroganti, autoritarie e violente. Nella Germania dei primi anni ‘30, la maggioranza dei tedeschi aveva, bene o male, una visione moderata della politica; il problema sorse quando una minoranza nazista, inizialmente riducibile a qualche migliaio di individui, con l’arroganza e la paura (e si sa, la paura immobilizza e ti mette a tacere) impose la sua visione malata alla società, che alla fine, immobilizzata, finì per accettarla e condividerla.
Il problema, nella Russia dei primi anni ‘20, non era la maggioranza del popolo russo ma una piccola minoranza di esso, i Soviet, arroganti e violenti, che, liberi di agire, si sono imposti su una maggioranza indifesa e confusa. Il problema, nell’Italia degli anni ‘20, non era la maggioranza, ma una minoranza di fascisti che, lasciati fare, hanno conquistato e assoggettato la maggioranza. Il problema, nella Cambogia degli anni ‘70, non era il grosso della popolazione, ma la piccola minoranza degli Khmer rossi che, impostasti come i nuovi dominatori, hanno portato al genocidio (1.5 – 2 milioni di morti) il proprio popolo. Gli esempi si sprecano. Questo discorso si applica anche alle minoranze religiose violente: l’Iran del ‘79, l’Afghanistan dei Talebani, e via dicendo. Il concetto è semplice: si pensi alla scuola, in particolare alla realtà di una classe.
La più importante questione, anzi sfida, che la nostra società deve affrontare è come sradicare, il fondamentalismo islamico. La domanda, in sé, è facile da porre, ma più difficile è giungere alla risposta. Chi può fermare la radicalizzazione di soggetti affascinati dalla semplicistica visione di un islam limitato al jihad e all’odio per il “non musulmano”?
La maggior parte dei musulmani che vivono in Europa è, spesse volte, apolitica e di base vuole condurre una vita tranquilla, dedita al lavoro e alla famiglia. Il grave errore che si commette, soprattutto da parte delle frange più estreme della destra, è quello di considerare – o anche solo di sospettare – tutti i musulmani come potenziali nostri nemici; questo atteggiamento pericoloso rappresenta una minaccia per la stabilità sociale. Ma oggi più che mai l’Europa ha bisogno, un estremo bisogno, di sentire il grido della maggioranza silenziosa di musulmani comuni perché proprio questa maggioranza potrebbe, forse, essere davvero l’unica in grado di mettere al bando gli islamisti.
Le comunità musulmane delle nostre città, a partire dalle moschee, devono aiutare le istituzioni nella caccia ai salafiti, dal momento che i fedeli di una comunità sono, più di altri, in grado di individuare e segnalare le loro mele marce. La maggioranza silenziosa deve diventare il nostro più grande alleato, deve stare dalla parte dello Stato, della legge, della democrazia e della libertà di azione e di pensiero.
Eppure, dopo anni di sangue, questa maggioranza silenziosa non riesce a farsi sentire, a mobilitarsi contro la crescente influenza dei salafiti e delle cellule islamiche più radicali e conservatrici. Purtroppo, e purtroppo veramente, gli imam illuminati che condividono una visione laica della società ci sono, ma sono lasciati soli: in primis dalle comunità musulmane stesse e in secundis dalle istituzioni che, invece, dovrebbero proteggerli, finanziarli e dar loro più spazio mediatico. Purtroppo la maggioranza silenziosa, se non in sporadici casi, continua a guardare, inerme e immobilizzata, ogni volta che in Europa si presenta una strage di matrice islamista. La questione è spinosa.
Hamed Abdel-Samad, storico e politologo tedesco di origini egiziane e musulmano per cultura, evidenzia il fatto che sia normale che un comune musulmano non voglia continuamente essere messo sotto processo per la propria fede, almeno su quegli aspetti e zone d’ombra più spiacevoli. Lo stesso sarebbe sbagliato per un cristiano, un ebreo, un induista, il sentirsi sempre sotto processo per la propria fede. Questo è un meccanismo perverso e autoritario da cui bisogna stare lontani. Così come è normale che un pizzaiolo musulmano a Parigi non voglia considerarsi complice di un attentato a Baghdad o delle decapitazioni dei cristiani copti in Egitto. Tuttavia, nota sempre Hamed Abdel-Samad, se decine di migliaia di musulmani scendono in piazza – giusto o sbagliato che sia – per protestare contro le caricature del Profeta o per gli slogan anti-islamici, ci si aspetterebbe che un pari numero di persone manifestasse di persona, in strada, contro la crescente influenza di gruppi islamisti nelle città Europee. Purtroppo, ancora, non accade. Il vantaggio sarebbe duplice: la comunità musulmana non vedrebbe ogni volta infangata l’immagine della propria fede; lo Stato acquisirebbe sempre più fiducia in quella comunità e la farebbe propria alleata. A onor del vero, da parte della comunità musulmana c’è stata una manifestazione di dissenso, il “Not in my name”. Tuttavia, per quanto “mediaticamente bella” è apparsa fin da subito troppo fiacca, timida e di scarso impatto.
L’altro grande responsabile nella crescita dell’islamismo sociale in Europa è proprio lo Stato di diritto che, per paura di essere tacciato di “intolleranza” verso le minoranza, è venuto meno, in molti casi, ai propri compiti, concedendo solo diritti e richiedendo indietro pochi doveri. Gli Stati europei dovrebbero smettere di dare spazio nanziario, tramite fondi illeciti o sospetti, a queste cellule dormienti. Un esempio. L’Europa democratica, fondata sullo stato di diritto che ammette una sola unica legge, quella appunto dello stato-nazione, e sacrosantamente laica nelle sua istituzioni, non può permettere che nei quartieri a maggioranza musulmana di alcune città prolifichino i tribunali della sharia (la legge coranica applicata al diritto). Non può permettere che in una sola Nazione si creino due Stati di diritto: questa è la base per il caos. Due comunità, due tribunali, due parametri di giudizio diversi, un’unica Nazione? Non è ammissibile, anzi è intollerabile. Lo Stato democratico, così facendo, legittima l’ignobile sottomissione della donna musulmana che, priva di tutela, viene consegnata nelle mani della sharia. La religione in questo modo si sostituisce al diritto e si vanno a creare, pertanto, le basi dello stato teocratico; attualmente, ci sono solo teocrazie islamiche in nove nazioni del mondo. Purtroppo, questa non è fantascienza, lo è per chi non vuole vedere e preferisce credere a una visione del mondo che si ferma a “Imagine” di John Lennon, aliena dalla realtà.
Ma di realtà si vive però. Quella dell’islamismo è una realtà tristemente concreta. L’Inghilterra, la Francia, il Belgio, la Germania e la Svezia contano decine e decine di moschee illegali, di tribunali di sharia paralleli a quelli statali. Questo non può più essere ammissibile, sempre che si voglia ancora tutelare la libertà e la democrazia… Rispetto ai radicali, i progressisti musulmani raramente si organizzano in grandi gruppi e, se lo fanno, sono meno interessati a lottare per il potere e per l’influenza politica. In questi spazi vuoti, pertanto, germogliano i fondamentalisti ortodossi che sfruttano la situazione per imporsi, dal momento che nessuno osa contraddirli o sfidarli. Le organizzazioni islamiste mirano – al pari delle chiese e delle sinagoghe – a essere riconosciute come enti di diritto pubblico e, quindi, in tal modo, riescono a finanziare il loro “anti-Stato”.
Un altro aspetto interessante da tenere in considerazione è che, se da un lato l’opposizione al fascio-islamismo è in aumento in diversi paesi musulmani mediorientali (i Fratelli musulmani, ad esempio, in Egitto, ma anche in Siria, in Libano, in Iraq, in Libia e in Tunisia sono in caduta libera e vengono dichiarati fuorilegge – ma non in Turchia, ad esempio, dove il fondamentalismo cresce e le chiese vengono chiuse, vandalizzate e umiliate nell’arte), le idee intolleranti e fascistoidi del salafismo trovano sempre più spazio in Europa e hanno come loro più grandi sostenitori, il più delle volte, i giovani di seconda generazione.
Un’alternativa valida alla rassegnazione delle istituzioni a questo fenomeno può esserci. Lo Stato più che pompare soldi in associazioni sospette dovrebbe cercare di offrire migliori opportunità di vita e di progresso ai giovani musulmani che vivono ai margini delle città. La scuola, ad esempio, deve diventare il luogo dove i giovani musulmani possano non solo instaurare un serio confronto con la cultura europea, ma anche trovare una valida alternativa al fondamentalismo religioso. Le società europee, ormai, sono arrivate a un punto in cui devono accettare l’idea che anche i musulmani abbiano il diritto di essere cittadini europei a tutti gli effetti; dal canto suo, la grande comunità musulmana europea dovrebbe iniziare con coraggio a mettersi in discussione sugli aspetti più critici della propria religione, come ha imparato a fare la comunità cristiana.
Credo che un buon punto di partenza per la comunità musulmana sia quello di incentivare, al suo interno, la cultura del dibattito e della discussione critica e scoraggiare, al contrario, una cultura fatta di risposte pronte, preconfezionate e indiscutibili. L’islam, e non lo dico io, considera le domande quali primo passo verso il dubbio e questo, nella teologia islamica, è peccato. Ma la coscienza culturale europea, che è stata traghettata alla modernità dall’umanesimo, è, al contrario, fondata proprio sul dubbio e sulla domanda, pilastri inalienabili del pensiero critico ragionevole.
Per chiudere questa lunga riflessione, mi limito a citare testualmente Hamed Abdel-Samad che, con grande lucidità, osserva la realtà dell’islamismo europeo: «Qui [in Occidente], il virus della jihad è più contagioso e si trasforma più velocemente di quanto si pensi. Una vittoria durevole implicherà una lotta lunga e dura su entrambi i fronti. L’inerzia, l’indifferenza e il silenzio sono tossici e pericolosi per l’Europa quanto il fascismo islamico. Le manifestazioni di solidarietà o la solidarietà di facciata non porteranno da nessuna parte. Il dibattito sull’Islam non deve creare paure né gettare il sospetto su tutti i musulmani, perché bisogna evitare che le comunità erigano altri muri […]» (Fascismo Islamico, Garzanti, Milano, prima edizione 2017).
Eppure, ovunque, c’è un grande silenzio.
Foto Ansa