Romanzo criminale è stato un gran bel film. Nulla da eccepire. Ma, per parafrasare il pensiero comune a molti colleghi cinefili, quando tocchi una vetta così elevata e poi ci provi e ci riprovi ma non riesci più nemmeno a sfiorarla, sarebbe meglio lasciar perdere. Forse Michele Placido si è convinto di poter far meglio e così ha percorso caparbiamente i binari della storia italiana, prima con il ’68 del dimenticabile Il grande sogno, e ora raccontando la vita e le “opere” di Renato Vallanzasca, che negli anni 70/80 mise a ferro e fuoco Milano.
Vallanzasca – Gli angeli del male potrebbe facilmente passare per un’ottima serie tv in due puntate, di quelle di alto livello che – per intenderci – produrrebbe Sky Cinema. Di qualità, certo, ma pur sempre con un impianto registico che ricorda molto quello televisivo. E con qualche incertezza di troppo. Passi la colonna sonora ammiccante (realizzata dai Negroamaro, gruppo molto in voga di questi tempi), ma le scene d’azione non convincono perfettamente, sembrano scene di un videoclip di qualche rapper americano maledetto, il doppiaggio pecca in più di un’occasione (specie per il personaggio di Paz Vega) e alcuni personaggi hanno una costruzione solo superficiale (come Consuelo, interpretata da Valeria Solarino, compagna di Vallanzasca da cui ha avuto il suo unico figlio).
Il film racconta la genesi e il percorso verso la violenza del bel Renè, interpretato da un Kim Rossi Stuart in stato di grazia, bravissimo e perfettamente calato nei panni del criminale milanese. Anche gli attori nei ruoli di supporto non se la cavano male, Scianna e Timi su tutti, ma è la struttura complessiva che non convince e finisce per penalizzare le ottime prove attoriali. Nonostante Placido abbia più spesso ribadito la sua intenzione di non voler esprimere con questa pellicola alcun giudizio sul personaggio ma di voler solo raccontare una pagina oscura della recente storia italiana, di fatto finisce per fare il contrario.
Vallanzasca/Rossi Stuart è tremendamente affascinante, in fondo è solo un uomo che ruba ai più ricchi, un ragazzo cresciuto in fretta ai margini di una società malvagia, che gli aveva portato via il fratello e che lo ha così spinto tra le braccia della malavita. Un uomo che cerca costantemente l’adrenalina, ma che non uccide, a meno che non si renda necessario. Un furfante dalla parlata genuina, che ama i suoi vecchi, legato agli affetti di una vita, cattivo ma non troppo, prepotente ma sfacciatamente simpatico. Ma questo è il Vallanzasca di Placido, il Renato che il regista ha incontrato e di cui ha subito l’indiscutibile fascinazione. I familiari delle vittime conoscono un ben più tragico rovescio della medaglia, un uomo che ha seminato il terrore, che con la sua banda ha trasformato Milano nel set di un film western, dove tutto si è giocato all’ultimo sparo. Dov’è la verità? Sicuramente non all’interno del film. Placido ha trasformato Vallanzasca in un uomo da ammirare, un antieroe che lo spettatore vorrebbe conoscere, uno strafottente si, ma bellissimo. Magari fosse stato così.