Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Il film che ho in mente è luminoso», ha detto Jean-Pierre Améris a proposito della sua opera Marie Heurtin, dal buio alla luce. «Voglio raccontare le mani di Marie che toccano gli animali, gli alberi e le facce, movimenti che giungono a diventare l’invenzione di un linguaggio e la storia di una liberazione, di una rinascita». La pellicola è stata inserita dalla Commissione nazionale valutazione film della Cei tra i film consigliati per l’Anno santo della misericordia.
Come le è nata l’idea di un film su Marie Heurtin?
Fin da piccolo, mi ha sempre appassionato la storia di Helen Keller, giovane sorda e cieca americana, conosciuta grazie al film di Arthur Penn, Anna dei miracoli. Dieci anni fa, ho scoperto che nella stessa epoca, alla fine del diciannovesimo secolo, è avvenuta in Francia una storia molto simile con Marie Heurtin e suor Marguerite. Questa storia è straordinaria e, contrariamente a quella di Helen Keller, del tutto dimenticata. Per questo ho voluto ridarle vita e farla conoscere al pubblico di oggi, perché può donare molta speranza.
Che relazioni e quali differenze esistono tra i vostri due film?
Le due storie hanno certamente dei punti in comune: all’inizio la violenza della giovane ragazza sorda e cieca, la fisicità dei loro scambi, la tenacia assoluta dell’educatrice, l’amore che nasce tra loro. Il film di Penn è tratto da una pièce teatrale e io ho cercato di fare un film più aperto sulla scoperta della natura, sul rapporto con il mondo che questa ragazza scopre. Per me, anche lo spettatore deve imparare di nuovo a guardare la bellezza del mondo insieme a Marie. Ho cercato di far partecipare totalmente lo spettatore a questa avventura, fargli sentire le stesse difficoltà e le stesse gioie dei personaggi.
Suor Marguerite insegna a Marie a rapportarsi con un «mondo dove ciò che è vivo passa sotto le dita». Ma anche Marie insegna a Marguerite ad accettare che la debba abbandonare. Infine, nell’ultima scena, Marie parla dell’arrivo di una nuova bambina sorda e cieca, alla quale vuole insegnare ciò che lei ha appreso e spera di «diventare sua amica». C’è dunque un filo che lega le tre figure: educare attraverso l’amore.
Sì, la mia non è solo la storia di una educazione al linguaggio, come ne L’enfant sauvage (in Italia: Il ragazzo selvaggio, 1970) di François Truffaut, che è stato per me certamente un riferimento importante. Tra Marie e la religiosa c’è davvero una storia di scambio: suor Marguerite insegna molte cose a Marie, ma anche Marie insegna molte cose alla religiosa: a guardare il mondo, a vivere una forma di maternità. Il vero soggetto per me è la comunicazione, lo scambio, il fatto che l’essere umano non cresce se non relazionandosi con gli altri, che noi esistiamo solo nel linguaggio e nel legame con gli altri, non isolati. Alla fine, si scopre che Marie insegna a sua volta il linguaggio dei segni ad altre giovani sorde e cieche, come è davvero accaduto nella realtà. La cosa più importante per me è questa nozione di trasmissione, di dono di sé. Mai lasciare le persone soffrire di un handicap nel loro isolamento, bisogna andare loro incontro, aiutarli a vivere una vita piena. Abbiamo tutto da imparare da loro ed è insieme che noi possiamo arricchirci gli uni gli altri.