Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Louis Sarno. Nacque il 3 luglio 1954. Nacque a Newark, nel New Jersey. Si iscrisse per studiare la musica classica che prediligeva da bambino alla Northwestern University di Chicago. Non si diplomò. Si trasferì ad Amsterdam. Una notte di Natale ascoltò alla radio un programma di musiche che non assomigliavano a nessuna di quelle che aveva sentito fino ad allora. Se l’annunciatore avesse parlato in inglese forse tutto sarebbe finito lì. Ma Louis non capì in fiammingo il nome del popolo o dei popoli che avevano prodotto quei suoni. Colse il nome di luoghi, come Congo e Zaire. Sapeva che erano due stati africani confinanti.
In biblioteca scoprì che erano anche due nomi dello stesso fiume, il grande fiume che attraverso la grande foresta pluviale scende dai monti Mitumba per sfociare nell’Atlantico. Scoprì che nel suo bacino vivevano decine di popolazioni con culture che in condizioni materiali simili erano capaci di grandi diversità espressive. Scoprì che perlopiù avevano nomi simili che cominciavano tutti con la sillaba ba, che erano quasi tutti popoli bantù, che nelle lingue ntu la sillaba ba formava il plurale, che per essere baluba bisogna essere almeno in due, uno solo è un luba, così per i bakuba, i bapende eccetera. Scoprì che a nessuno di quei popoli appartenevano le musiche che aveva ascoltato. Le suonavano popoli che vivevano in modo più primitivo, dove la foresta era più fitta, impenetrabile, tribù poco numerose le cui principali attività erano la raccolta, la caccia, anche di animali grandi come gli elefanti con frecce piccole come matite e la difesa dai giganteschi bantù; popoli in cui gli individui più alti non superavano il metro e cinquanta.
Popoli che in quasi tutte le lingue dell’orbe terracqueo erano chiamati con il nome mitico che senza conoscerli avevano affibbiato loro i greci, pigmei, ovvero omini grandi come un pugno, solo un po’ più grandi di Pollicino. L’etnologia musicale nel dopoguerra si era già occupata di loro con grande interesse. Louis Sarno vi dedicò l’esistenza. Visse tra di loro, registrò i loro canti, girò due film, curò tra l’altro l’edizione delle sue registrazioni per l’università di Oxford. È morto sabato 1 aprile.
Gianni Boncompagni. Nacque il 13 maggio 1932. Nacque ad Arezzo. Il padre era militare di scrivania e scartoffie, la madre maestra. Passata la guerra, Gianni studiò in una provincia povera di cose e piena di sogni. Molti sogni nascevano sulle spiagge d’estate: in una lingua straniera, perlopiù del gruppo germanico, parlavano di benessere e di libertà. A diciotto anni Gianni decise, senza saperlo, di diventare quello che oggi noi chiameremmo un emigrante economico, uno che passa frontiere non per sfuggire una dittatura e una guerra, che entrambe erano da noi per fortuna passate, ma per stare meglio.
Scelse la Svezia, più su non si poteva andare, in Norvegia la gente non era così bella né così libera: ancora alla frontiera tra i due paesi sulla strada che da Malmö portava a Bergen, dalla parte svedese c’era un tendone da circo in cui da mane a sera si offrivano spogliarelli ai norvegesi di confine; un po’ come a Mendrisio nel Ticino si offrivano documentari naturisti svedesi ai varesotti (“Il peccato a dieci chilometri dal confine”, titolava il quotidiano della provincia).
In Svezia Gianni trovò lavori, trovò amori. Trovò l’amore, si sposò, ebbe tre figlie. Si separò conquistando l’affidamento delle tre bambine. A fare il ragazzo padre, a mettere frutto il talento che l’esperienza esotica aveva acuminato tornò in Italia.
Trovò nella televisione che si andava liberando della polvere degli inizi, dalle pastoie del ritardo il terreno ideale. Anche l’Italia sarebbe entrata nel bene e nel male, bon gré mal gré, in quella che les philosophes avrebbero chiamato la società dello spettacolo. Era un terreno accidentato. Il talento di Boncompagni fu di percorrerlo con le persone giuste, fu di non inciampare in pregiudizi, suoi o altrui, di non lesinare creatività. È morto domenica 16 aprile.
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