Nemmeno gli americani in tutto il loro orgoglio, nel momento in cui si stavano costituendo come nazione, ebbero il coraggio di scrivere che compito della politica è di facilitare la felicità dei cittadini. Nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti ratificata a Filadelfia nel 1776 si legge che i governi devono garantire il diritto alla ricerca della felicità, diritto di cui il Creatore ha dotato ogni essere umano. Invece secondo il Rapporto sulla felicità mondiale pubblicato annualmente dal Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite l’oggetto della loro ricerca dovrebbe essere al centro delle politiche nazionali e internazionali, e loro sono in grado di misurare se lo si sta incrementando oppure no.
Loro sanno in cosa consiste la felicità umana, la misurano un anno dopo l’altro e fanno la classifica dei paesi del mondo su tale base. E ci dicono che la Danimarca è il paese più felice del mondo seguito dalla Svizzera e dall’Islanda, che l’Italia è solo 50esima subito dopo il Nicaragua e l’Uzbekistan (!), mentre il Burundi è il paese più infelice del pianeta, appena peggio della Siria in guerra, del Togo e dell’Afghanistan.
Basta già questo carotaggio della classifica per far storcere il naso a più di uno e per suscitare scetticismo: come fa un paese dove hanno avuto luogo colpi di Stato ma mai guerre come il Togo, a essere messo sullo stesso piano di paesi straziati da anni o addirittura decenni di guerra e terrorismo come la Siria e l’Afghanistan? Come fa l’Italia a essere più infelice del Nicaragua, che ha un tasso di omicidi undici volte più alto del nostro? Gli autori del Rapporto cercano di difendersi dall’accusa di voler obiettivare ciò che è massimamente soggettivo (ciò che fa la mia felicità può essere molto diverso da ciò che fa la tua) spiegando che insieme a dati oggettivi come il reddito pro capite e il numero di anni di vita in buona salute vengono presi in considerazione dati relativi a percezioni soggettive, come quelle relative al livello di corruzione della funzione pubblica, alla propensione alla beneficenza, alle reti di sostegno sociale di cui si gode, eccetera. Però le domande svelano il pregiudizio culturale e antropologico da cui nascono, che è quello di un umanesimo agnostico per il quale l’uomo è sufficiente a se stesso e può darsi da sé la felicità in termini immanenti.
Il dato oggettivo degli anni di vita in salute come misura della felicità nasce evidentemente da un’idea immanentista della stessa: una persona malata cronica, un portatore di handicap, un soggetto autistico o down abbassa la media della felicità nazionale. Alcuni organi di stampa fanno notare che il tasso di felicità dei paesi industrializzati misurato dal Rapporto si sta abbassando: per forza, sono paesi con una popolazione sempre più anziana, i cui anni di vita sana si sono molto spesso esauriti. Per rialzare la media serviranno grandi progressi medici o, più semplicemente, la legalizzazione dell’eutanasia e una propaganda capillare per incentivare il ricorso alla medesima.
Anche le misure basate su indicatori soggettivi (che deriverebbero da una periodica inchiesta Gallup in tutto il mondo, e io stento a credere che la Gallup riesca davvero a intervistare campioni attendibili di popolazione in Sud Sudan e in Papua Nuova Guinea) sono influenzate dalla cultura individualistica di chi le ha formulate. Secondo il Rapporto una risposta positiva alla domanda “hai fatto una donazione a un ente caritativo nel corso dell’ultimo mese?” indica un tasso di felicità più alto rispetto a una risposta negativa alla stessa domanda. Ma nelle società collettiviste e organiche dell’Africa, del mondo islamico e dell’Oriente l’aiuto ai componenti poveri della comunità è già incorporato nelle istituzioni religiose e culturali, l’altruismo è normalmente limitato ai membri della famiglia, del parentado o della tribù, e la possibilità di allargare i propri comportamenti oblativi anche agli estranei non ha niente a che fare con la felicità personale percepita.
Altrettanto equivoco è il criterio della “libertà di scelta”: al sondato viene domandato quanto si senta libero di scegliere quella che secondo lui è la sua strada per la felicità. La domanda è equivoca perché presuppone che tutta l’umanità concordi col principio illuminista dell’autonomia morale dell’individuo, il quale decide quello che è meglio per sé e poi fa i conti con la società e le sue istituzioni che lo ostacolano oppure lo facilitano. Ma Jeffrey Sachs (uno dei guru dietro al rapporto, probabilmente lo studioso al mondo che ha scroccato più consulenze al sistema delle Nazioni Unite) sembra voler ignorare che una parte rilevante dell’umanità continua a pensare in termini di doveri: verso Dio, verso la propria famiglia, verso la tribù, verso la patria, eccetera. Per loro una domanda intorno alla libertà di perseguire la propria felicità soggettiva non ha senso, oppure la fraintendono.
La natura ideologica di tutta l’operazione si scopre nel capitolo 3, intitolato “Promuovere un’etica secolare”. Il capitolo sostiene che la felicità ha bisogno di comportamenti etici, che in passato erano incoraggiati dalle religioni, ma oggi la religione è in crisi, perciò bisogna trovare basi non religiose all’etica di chi sempre più cesserà di credere in un Dio autore delle leggi morali. È il vecchio discorso dei “valori comuni” che dovrebbero unire credenti e non credenti al servizio della società. Secondo l’autore del capitolo, Richard Layard, si tratta di far convergere tutta l’umanità sul principio della “massima felicità per tutti”. Cioè tutti devono adottare il principio di azione universale di contribuire con le proprie azioni alla più grande felicità di tutti.
Come si vede, si tratta di un principio senza base: perché dovrei preoccuparmi del progresso universale? E perché l’uomo merita di essere felice? E chi lo ha detto che l’esistente è buono e meritevole di sforzi? Layard cita nelle note Jeremy Bentham e nel testo l’Illuminismo inglese: cioè l’utilitarismo, secondo cui egoismo e altruismo coincidono perché preoccupandoci della felicità altrui realizziamo anche la nostra. Non è esattamente la traiettoria percorsa dai paesi anglosassoni, che insieme al progresso economico e alla diffusa libertà politica hanno conosciuto la crescita della diseguaglianza e dell’infelicità individuale, annegata nell’alcol, nelle droghe, negli alti tassi di criminalità giovanile, di separazioni e divorzi, di disagio psicologico e psichico.
L’intervento di Layard fa specie anche per un altro motivo: pretende di far credere che «benché il 59 per cento della popolazione mondiale si definisca ancora religioso, la percentuale è diminuita in molte parti del mondo, e questa tendenza è destinata a continuare». Qui c’è un grosso problema di disinformazione alimentato dalle Nazioni Unite, perché il dato del 59 per cento non è in nessun modo attendibile, non si capisce da dove arrivi e la sua origine non è indicata nemmeno nelle note. Secondo l’autorevole Pew Research Center, i “non affiliati” (agnostici e atei) erano il 16,4 per cento dell’umanità nel 2010, e in futuro aumenteranno di numero ma non in percentuale sul totale dell’umanità: nel 2050 saranno scesi al 13,2 per cento.
Il problema dei dati che le Nazioni Unite fanno passare per buoni è parecchio serio. Nella tabella statistica dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) il tasso dei suicidi in Danimarca ammonta a 8,8 ogni 100 mila residenti nel 2012. Ma se prendiamo in mano i dati di Eurostat, l’ente statistico dell’Unione Europea, scopriamo che per lo stesso anno 2012 viene indicata la cifra di 12,2 suicidi ogni 100 mila cittadini in Danimarca. Cioè quasi il doppio dell’Italia, che si ferma a 6,6. È così: i danesi sono i più felici del mondo (secondo l’Onu), cinquanta posti in classifica davanti agli italiani. Però si suicidano il doppio degli italiani (dati dell’Unione Europea). E le danesi, poi, nonostante le grandi conquiste femministe dei paesi scandinavi, si suicidano più del doppio delle italiane (5,9 contro 2,8).
Vista l’accuratezza del dato relativo alla fede religiosa, permetteteci di credere più agli statistici Ue di Bruxelles che agli statistici Onu di Ginevra (dove ha sede l’Oms, l’ente che vuole farci smettere di mangiare i salumi annunciando che sono cancerogeni come il fumo delle sigarette. Coglioni).
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