«È nella lista dello opere più frequentemente iniziate e mai finite» (Derek Attridge). «Scomposto, disgustoso, pretenzioso» (Virginia Woolf). Pilastro della narrativa novecentesca. Però, prima di tutto, «a novel», come lo definisce l’autore. «L’Ulysses è un romanzo». Non c’è nulla di scontato in questa definizione. Di quella che, secondo James Joyce, doveva essere «la storiella di una giornata» e del «ciclo del corpo umano» e l’«epopea di due razze» (ebraica e irlandese) si è trascurata la «vitalità», l’«ironia». E con esse si è dimenticato che l’Ulysses è un libro non soltanto da leggere, ma da leggere con piacere.
Quando è stato contattato da tempi.it, Enrico Terrinoni era «incasinato nel traffico di Dublino». Là, nella “città del guado del graticci” (in gaelico) ha studiato la lingua di Joyce e la letteratura irlandese. Dopo esser stato chiamato a tradurre l’“intraducibile”, l’Ulysses, ci è tornato, come traduttore italiano dell’Ulysses. Una Dublino caotica, quella descritta da Joyce, come la Dublino della realtà. E su quel caos della Dublino letteraria, Terrinoni ci ha lavorato sopra «10 mila ore»: «Dieci, dodici ore al giorno per tre anni».
In Italia, per cinquant’anni, l’unica traduzione (legale) in commercio è stata quella di Giulio De Angelis. «Un po’ aulica e un po’ troppo anglo-centrica». Quest’anno, si è aggiunta quella di Terrinoni. I diritti su Joyce sono decaduti e Newton Compton Editori ha deciso di farlo uscire per la collana economica I Mammut.
Per il giovane traduttore, docente all’Università per stranieri di Perugia, «l’Ulysses è un libro umano». «Un libro comico, che parla della vita». «Un libro strano, strange». «Strano, nel senso di estraneo, straniero: che varca i confini delle definizioni, che porta in una terra sconosciuta. «Un libro – assicura Terrinoni – che è anche stravagante, con la sua fantasmagoria di stili, il suo oscillare fra il puro anglosassone al black english».
Perché sono passati così tanti anni da una traduzione dell’Ulysses?
Da una parte il prezzo per i diritti, proibitivo, dall’altra Joyce è sempre stato percepito come un autore per specialisti e l’Ulysses come un’opera inaccessibile a un vasto pubblico.
Un romanzo un po’ complicato…
Tutti ciò che è degno di essere letto è un po’ complicato. È vero che l’Ulysses è più complicato di altre opere, ma questo fa parte della sua eccezionalità. Quella di Joyce è una scelta formale e stilistica che ricalca la complessità della vita. La frammentarietà della vita contemporanea.
Bisogna leggerlo?
Non è un obbligo. Ma se non si legge l’Ulysses è difficile comprendere la letteratura del Novecento. È enorme l’influenza che Joyce ha avuto su tutti i grandi scrittori da allora a oggi.
Virginia Woolf in Ulysses ha trovato del «genio di rango inferiore». Il lettore cosa dovrebbe cercare?
Preferisco dire quello che non deve cercare: l’esercizio di stile. L’Ulysses è un libro che si apre totalmente all’esperienza, all’umano. È un libro umanista e ironico. Fermarsi allo stile significa fermarsi in superficie. Poi è inevitabile che si perda il gusto di leggerlo.
E al lettore spaventato dal “flusso di coscienza”, cosa diciamo?
“Flusso di coscienza” è una definizione fuorviante che si adatta meglio alla beat generation. Joyce dipinge il pensiero umano più come un treno diviso in vagoni. La narrazione dell’autore passa senza discontinuità dall’interno all’esterno dei personaggi, dai pensieri e dalle sensazioni ai fatti, ma il pensiero non è mai anarchico, è libero ma legato: c’è sempre un collegamento logico, un collegamento grammaticale, metaforico a dargli senso.
Nella sua introduzione al libro, scrive che in Joyce la volontà di costruire intricati percorsi di lettura va di pari passo con la sua “democraticità”.
Ed è così. Joyce vuole parlare della sua terra, della sua Dublino, della sua gente. Contro l’antisemitismo, contro la prepotenza colonialistica anglosassone.
Joyce parla di corpo e dice addirittura che ogni avventura è una persona. Quindi, nonostante la frammentarietà della vita e la complessità dello stile, c’è un’unità in Joyce. Qual è?
Da una parte, Joyce ha un’estetica di tipo enciclopedico, che ordina la realtà. Dall’altra, pensa che il caos è soggiogato da leggi misteriose che riescono a ricomporre quello che è la frammentarietà del vivere. Si sa poco della sua passione per il misticismo ebraico e cristiano, ma nella sua biblioteca personale c’erano libri che andavano dalla cabala alla teosofia all’occultismo di quart’ordine.
Tradurre Joyce: cosa deve affrontare un giovane traduttore, in Italia?
Intanto bisogna scontrarsi con l’ideologia diffusa per la quale ogni traduzione sarebbe una “ritraduzione” che mette in discussione quella precedente. Non è proprio così. Non ci sono “autorità indiscutibili” in questo campo. Ogni traduzione aumenta le possibilità di avvicinarsi allo spirito dell’opera. E le traduzioni viaggiano parallelamente, si affiancano, non si sopprimono a vicenda.
In che modo il traduttore riesce ad avvicinarsi allo “spirito” di quest’opera?
L’ideale sarebbe che vi fosse un pool di traduttori e una traduzione continua, come accade per la Bibbia. Io ho adottato un metodo di “open translation”. Una traduzione plastica, che seguisse il ritmo, i giochi di parole, usati da Joyce per lasciare straniato il lettore. Ovviamente è impossibile copiare il suo uso formidabile della lingua. Il suo inglese comprende l’intero anglossassone. Un problema rilevante, per esempio, della traduzione precedente è stato quello con l’inglese dublinese. Formalmente la lingua è identica, però può capitare che un vocabolo voglia dire una cosa in dublinese e un’altra in inglese. La traduzione di De Angelis ignorava che vi fosse questo scarto semantico e traduceva un vocabolo che voleva dire una cosa in uno che ne voleva dire un’altra.
Quali sono i punti d’incontro tra la sua traduzione e quella precedente, quali sono le differenze sostanziali e in che ambito si concentrano?
Il punto di incontro è stato il rispetto della sonorità. Le divergenze sull’idea di come restituire Joyce al lettore. De Angelis ha preferito una versione classicheggiante. Così ha perso molti aspetti ironici della versione irlandese.
Come descriverebbe l’Ulysses usando tre aggettivi?
Umano: è un libro che respira. Comico. Un libro che parla della materia, della vita.