Quando i cattolici non avevano paura di separare il bene dal male

Che cosa è rimasto della presenza dei credenti nel campo della bioetica? Poco studio, poco coraggio, poca logica. Appunti per una ripresa

Una versione ridotta di questo articolo è contenuta nel numero di settembre 2019 di Tempi.

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Nei decenni passati, amici e avversari della posizione del Magistero cattolico e degli studiosi in sintonia con esso sulle magnae quaestiones della vita, della morte, della medicina e delle biotecnologie lo hanno sempre riconosciuto, al di là di ogni differente pensiero e scelta di campo culturale, sociale e politico: «Il giudizio dei cattolici non lo condividiamo e lo attaccheremo, ma è ben documentato, puntuale, chiaro e netto», si sentiva dire nei comitati di bioetica, nelle aule dei congressi e nelle commissioni parlamentari e ministeriali. Quattro aggettivi – documentato, puntuale, chiaro e netto – che delineavano il volto pubblico della Chiesa in materia di antropologia ed etica della vita personale e orchestravano la voce ecclesiale anche nelle più alte e prestigiose sedi del dibattito internazionale (chi scrive ne è stato in qualche modo protagonista e testimone nell’aula parlamentare e presso l’Unione Europea, e alle Nazioni Unite).

Parliamo dei tempi in cui erano stati chiamati ad esprimere pubblicamente il giudizio della Chiesa e il pensiero dei cattolici – solo per citarne alcuni tra quelli ormai saliti in cielo – il gesuita Giacomo Perico, padre Lino Ciccone, il ginecologo Adriano Bompiani, i teologi moralisti Dionigi Tettamanzi e Carlo Caffarra, il cardinale Ersilio Tonini, il bioeticista Elio Sgreccia, i genetisti Jérôme Lejeune e Angelo Serra, gesuita, il medico americano Edmund Pellegrino e l’intensivologo Corrado Manni. E si potrebbero aggiungere ulteriori nomi.

Altri tempi, certo. Ma cosa è rimasto, oggi, nell’arena della bioetica, di questa presenza della Chiesa, imponente per l’efficacia argomentativa e la capacità dialettica quanto povera di strategie comunicative, quelle attualmente ritenute da molti ecclesiastici e studiosi cattolici come imprescindibili?

Chi non sa, taccia

Anzitutto il rigore della documentazione scientifica e clinica sulla realtà di cui si discute, sia essa la morfofisiologia di un embrione, le procedure tecnologiche di manipolazione biologica del corpo umano, il meccanismo d’azione molecolare e cellulare di un farmaco, la natura degli interventi di ingegneria genetica, o la specifica patologia cerebrale di un paziente in terapia intensiva. La premessa indispensabile di ogni ulteriore argomentazione. «Prima bisogna far parlare gli scienziati e i medici per sapere di cosa esattamente andiamo a discutere – ripeteva sempre il cardinale Elio Sgreccia – altrimenti parliamo a vanvera e non saremo convincenti».

Espressioni udite in occasione delle vicende dei bambini malati Charlie Gard e Alfie Evans e del cerebroleso francese Vincent Lambert, ai quali è stata tolta anzitempo la vita per eutanasia omissiva – come «Sono situazioni cliniche difficili da capire» oppure «Non è facile comprendere la condizione in cui si trova» – non sarebbero state ammissibili. Si doveva studiare il caso, leggere tutta la letteratura medica e biologica in qualunque lingua, ritrovarsi con i massimi esperti (talvolta convocati direttamente in Vaticano), e passare giorni e notti ad analizzare i dati disponibili provenienti da diverse parti del mondo. Ricordo di averlo fatto personalmente e insieme ad altri esperti, all’epoca dei primi tentativi di clonazione animale e umana e di colture di cellule staminali embrionali, per riferire poi i necessari dettagli sperimentali ai vertici della Santa Sede.

La parola d’ordine in Vaticano era: «Parlino a nome della Chiesa i nostri esperti. Chi non sa, taccia». Anche gli alti prelati e i porporati, che sapevano di teologia e di morale ma non di biologia e medicina, si facevano da parte. E se qualche aspetto «non era facile da capire», si doveva continuare ad studiare ed approfondire i dati, affinché il giudizio morale e giuridico da rendere pubblico fosse inattaccabile in primo luogo sul piano scientifico e clinico. E così è stato, per unanime riconoscimento della comunità internazionale degli scienziati e dei medici, anche quando piovevano critiche sotto il profilo etico, giuridico e politico.

Ribattere colpo su colpo

Oltre ai documenti e ai discorsi del Magistero che affrontarono in forma generale (ma non certo generica) le questioni antropologiche ed etiche sollevate dagli sviluppi della medicina e delle biotecnologie, i rappresentanti centrali e locali della Santa Sede non si erano mai tirati indietro di fronte ai singoli casi di palesi violazioni del diritto fondamentale alla vita sin dal concepimento e dell’inalienabile dignità della persona malata. Interventi tempestivi, competenti, ed efficaci (pur con strumenti assai meno potenti di quelli dei mass media oggi a disposizione).

Anche quando questo ha comportato entrare in rotta di collisione con decisioni di medici, parenti del malato o giudici, oppure scontrarsi con decisioni delle assemblee legislative e dei governi. Non era ammissibile nessuna condiscendenza con i sistemi di potere sanitario nazionale – che impongono o coprono atti medici soppressivi della vita di un concepito o di un bambino inguaribile, come è accaduto nel Regno Unito – o di lobbies biotecnologico-industriali. Il tacere di fronte alle situazioni individuali sarebbe equivalso ad ammettere eccezioni all’inviolabilità della vita dell’uomo che, sommate le une alle altre, avrebbero dato l’impressione di un cedimento morale e giurisprudenziale alla «cultura della morte» (san Giovanni Paolo II) o alla «cultura dello scarto» (papa Francesco).

E così è stato anche nei casi di due donne in stato vegetativo persistente – Terri Schiavo negli Usa ed Eluana Englaro in Italia – sottoposte alla sospensione eutanasica di idratazione e nutrizione, che hanno visto l’intervento deciso delle due Conferenze episcopali nazionali. Per questo – soleva ripetere l’allora direttore di un quotidiano cattolico – bisogna «ribattere colpo su colpo, senza lasciar tranquillo il bersaglio». È quello che oggi accade, tra l’altro, nei casi di violazione del diritto al soccorso e all’accoglienza di singoli o gruppi di rifugiati da parte dei governanti, che vengono denunciati pubblicamente, di volta in volta, dai vescovi e dai cattolici impegnati nelle politiche sociali di ospitalità dei migranti.

Quando è in gioco la vita e la dignità di una sola donna, di un uomo, un bambino o un non ancora nato, la Chiesa non può tacere. Altrimenti, al suo posto, «grideranno le pietre» (Lc 19,40). E non si può discriminare ciò che accade nella camera di degenza di un ospedale da quel che succede in mare aperto, il laboratorio di fecondazione in vitro che mette in pericolo di morte gli embrioni umani dal barcone sommerso dalle onde che rischia di affondare, le alterazioni del genoma umano che violano l’integrità e la dignità del nascituro dalle barriere erette ai confini degli stati che negano la libertà dei trasferimenti di chi è alla ricerca di sicurezza per sé e la propria famiglia, lo sfruttamento delle donne come gestatrici per maternità surrogata dalla riduzione in schiavitù lavorativa o prostitutiva delle immigrate.

La chiarezza delle affermazioni

La bioetica è nata per gettare una luce sulle questioni sempre più complesse che riguardano la persona in riferimento agli interventi su di essa, prima e dopo la nascita e verso la fine della vita, da parte delle scienze e tecnologie biomediche. Il contributo dell’antropologia e della morale di ispirazione cattolica a questo lavoro è stato prezioso (ed apprezzato) proprio perché – nella sua fondazione ontologica personalista – ha aiutato a chiarire le domande e le risposte attraverso un approccio critico che fa leva sul realismo, la ragionevolezza e la moralità. Di questo metodo è parte l’uso di una logica rigorosa nelle argomentazioni, che oggi è spesso latitante (almeno nelle espressioni pubbliche di alcuni portavoce, per tacere di quando è tollerata anche nei contesti di ricerca scientifica ed accademici), lasciando spazio ad affermazioni allusive, oblique e oscillanti, che talora si prestano ad interpretazioni differenti, perfino tra di loro contraddittorie.

Vediamo scagliare il sasso e poi ritirare la mano, alzare la voce contro un’offesa alla vita e subito tacere di fronte ad un’altra di pari gravità o maggiore, dire, ridire e poi non dire più nulla, oppure usare espressioni generiche, non qualificate, che guadagnano rapidamente un consenso pubblico a spese di un’ambiguità vanificatrice di ogni tentativo leale, alla luce del sole, di affrontare le questioni.

«Siamo sempre dalla parte della vita»: ma “quale vita”? La vita di chi? E, operativamente, nelle singole circostanze della vita, in che modo ci si pone “dalla sua parte” e non da quella della morte? «È una sconfitta per tutti»: sì, l’esito di un conflitto può anche essere tale. Ma non tutti sono dalla parte della realtà, della ragione e della moralità. Non ogni posizione confliggente ha pari verità, dignità, rispetto, accoglienza e amore nei confronti della vita di una donna, di un uomo, di un bambino, di un embrione o un feto, di un disabile o un malato inguaribile. La giustizia e la misericordia non mettono tutto e tutti sullo stesso piano: sanno discernere e non hanno paura di chiamare il male male e il bene bene, con logica chiarezza che illumina ma non abbaglia.

Il cardinale Caffarra, citando Bertrand Russell, amava ripetere che nella storia molti hanno cercato di spezzare la logica, ma alla fine è stata la logica a spezzare molti di loro e tante loro affermazioni. Tante contrapposizioni nelle questioni bioetiche sono figlie dell’oblio del principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso.

La nettezza del giudizio

Ogni affermazione prende posizione (qualunque posizione), ed è, in quanto tale, un giudizio. Di fronte alla realtà, è impossibile non prendere posizione. Anche chi dice di non voler prendere posizione di fronte a qualcosa o a qualcuno, di non voler giudicare, per ciò stesso assume una posizione: se non altra, quella di chiudere gli occhi o voltare la faccia per non vedere. Il sacerdote e il levita della parabola evangelica (Lc 10,30-37), girando alla larga dall’uomo ferito dai briganti sulla strada da Gerusalemme a Gerico, non dicendo né facendo nulla, hanno preso posizione e giudicato (su come, secondo loro, dovevano comportarsi) non meno del samaritano.

A differenza di giudizi di altra natura – come quello estetico su un’opera d’arte, gastronomico su un cibo, scolastico sulla scelta di un percorso di studi, o socioeconomico sul valore di un oggetto o un’impresa – quello dell’etica della vita e della medicina è chiamato, per statuto epistemologico, a guidare scelte operative da cui dipende la vita, la salute, l’integrità fisica e la morte di una o più persone. E l’effetto di queste decisioni sul soggetto interessato è in molti casi irreversibile. Per questa grave ragione, la bioetica non può arrestarsi al livello dei princìpi, dell’enunciazione dei valori in gioco o della dossografia pur completa del panorama culturale, sociale e giuridico. Deve fornire – pena la sua irrilevanza pratica – criteri operativi per le decisioni dei singoli attori nelle vicende concrete della storia quotidiana, quando chi è in gioco è chiamato, in scienza, coscienza e giurisprudenza, a scegliere quanto fare e quanto non fare, cosa ordinare o autorizzare e cosa negare o sospendere. A queste drammatiche decisioni sono legate, non infrequentemente, la vita, la salute o la morte di un uomo o una donna. Se la bioetica possiede un’utilità per il bene comune (al di là del suo valore accademico), questa risiede nell’orientare positivamente le decisioni dei pazienti e dei loro congiunti o tutori, dei medici e degli infermieri, dei ricercatori, dei legislatori e dei giudici in merito alle scelte che coinvolgono la vita umana.

Nei decenni passati, il Magistero cattolico e gli esperti che ne hanno condiviso e aiutato lo sviluppo sulle questioni bioetiche hanno sempre spinto la riflessione e l’insegnamento fino a quella sottile ma decisiva lama che separa il bene dal male nelle scelte concrete che la libertà dei singoli e le decisioni sociali, giuridiche e politiche sono chiamate a prendere. Senza timore di mettere le mani nella pasta delle azioni quotidiane o eccezionali che coinvolgono chi in corsia veste il pigiama e chi porta il camice, chi in laboratorio tiene in mano una provetta e chi si trova dentro quella provetta, chi si appella ad un giudice e chi emette una sentenza, chi approva leggi e chi è chiamato ad applicarle. E dicendo con libertà e schiettezza evangelica: «Sì, sì; no, no» (Mt 5,37). Una libertà e una franchezza apprezzata anche da chi diceva l’opposto, ma trovava nella Chiesa un interlocutore dalle tesi limpidamente delineate e decisamente proposte.

Il timore di perdere consenso

Una nota inedita sembra caratterizzare i recenti sviluppi della bioetica cattolica, o almeno in alcune sue nuove correnti di pensiero e di azione. È caratterizzata da due preoccupazioni, che appaio talvolta così ossessive da risultare paralizzanti rispetto ad ogni iniziativa pubblica per il bene personale e comune: quella del “consenso” tra i fedeli e all’esterno della Chiesa e quella di creare delle “divisioni” culturali, ecclesiali, sociali o politiche sulle questioni della vita, della medicina e delle biotecnologie sanitarie. I due timori sono tra loro legati: la mancanza di consenso genera posizioni opposte rispetto a quelle proposte, e le opposizioni non restano più silenziose, ma si tramutano in contestazioni aperte, movimenti di opinione, circoli ecclesiali o politici, iniziative di contrapposizione e resistenza.

Un timore diffuso, dettato da una strategia mondana e da una logica prigioniera dell’incubo dell’insuccesso, misurato in termini di opinioni prevalenti o minoritarie, a prescindere dal contenuto di verità e di bene che esse veicolano. La dimensione educativa e culturale del messaggio cristiano e dell’insegnamento antropologico ed etico che da esso fluisce anche sulle questioni bioetiche cede così il campo alla dimensione sociologica e politica, che esalta i tentativi di unificare e omologare (sul principio di maggioranza o dominanza) le posizioni dei credenti e dei cittadini per evitare i conflitti, anziché farle maturare verso una coscienza di verità e di bene che sola, ultimamente, può fondare l’unità di una comunità religiosa o civile e unire pur nella irriducibile pluralità dei soggetti.

A ben vedere, si tratta di un timore non evangelico, cioè non cristiano. Gesù stesso, sin da bambino, con la sua presenza, è riconosciuto dal vecchio Simeone nel Vangelo come «segno di contraddizione» (seméion antilegómenon: Lc 2,34). Attraverso di lui «i pensieri di molti cuori saranno svelati» (Lc 2,35), non occultati in un’apparente consenso di opinioni. Un giorno Gesù, divenuto adulto, dirà lui stesso: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione!» (Lc 12,51). Duemila anni di storia del cristianesimo hanno mostrato come l’insegnamento dei suoi discepoli e della Chiesa, quando è rimasto fedele al Vangelo, non è stato accolto da applausi nel mondo e non ha messo tutti d’accordo. Ma è giunto intatto fino a noi e ha contribuito ad edificare una civiltà e una cultura più umana.

Foto Ansa

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