La Stampa la spara grossa: «L’unità confessionale genera violenza». Una critica punto per punto

Partendo da uno studio sul pluralismo religioso del Pew Research Center, il quotidiano torinese pubblica un articolo che mischa sciatteria, analisi grossolane e castronerie varie

Amore per la diversità, passione per il multiculturalismo, desiderio di stupire o semplice ignoranza? Non è chiaro che cosa abbia spinto la Stampa ad avventurarsi lunedì in un avventato gioco di deduzioni sulla correlazione tra pluralismo religioso e violenza, sta di fatto che il risultato è un articolo che mischia sciatteria, analisi grossolane e castronerie assortite.

UNITÀ CONFESSIONALE=VIOLENZA. Partendo da «uno studio del Pew Research Center sul pluralismo religioso all’interno dei vari Stati del mondo», l’articolista Flavio Alivernini approda all’incredibile conclusione che, come recita il titolo del pezzo, «più religioni ci sono meglio è» visto che «l’unità confessionale» genera violenza.

I DATI. Per dare a Cesare quel che è di Cesare, bisogna premettere che solo i dati sono del Pew Research, mentre le conclusioni e «l’attenta lettura dei dati» è tutta del quotidiano torinese. Lo studio di partenza si limita ad analizzare il tasso di pluralismo religioso negli Stati del mondo, con risultati per nulla sconvolgenti: il più alto tasso di pluralismo si trova nell’area Asia-Pacifico, il minore in America Latina e Medio Oriente. Europa e Nord America sono a livello moderato.

CONCLUSIONI DELLA STAMPA. Partendo da qui, Alivernini afferma che «i Paesi in cui si tende all’unità confessionale sono anche quelli dove la popolazione convive con il più alto tasso di violenza religiosa». Infatti, continua il nostro, «Pakistan, Afghanistan, India, Somalia e Israele hanno un bassissimo tasso di diversità al loro interno ma, di contro, sono in vetta alla graduatoria dei paesi con il maggior numero di conflitti motivati dalla fede».
Anche «Egitto, Iraq, Sudan, Siria e Yemen si collocano nella parte bassa della classifica quanto a pluralismo e diversità, ma in cima per il tasso di ostilità provocate da ragioni confessionali».

VIOLENZE IN VATICANO? Seguendo il ragionamento della Stampa, l’ultimo paese nella classifica stilata dal Pew Research per pluralismo religioso dovrebbe anche essere il più violento: ma a meno di nuove, incredibili rivelazioni non risulta che nella Città del Vaticano siano in atto scontri confessionali. Lo stesso dicasi per paesi come San Marino, Liechtenstein, Polonia, Irlanda, Aruba e la lista sarebbe ancora lunga.

GUERRA IN SIRIA. La Stampa avrà anche fatto «un’attenta lettura dei dati», ma di sicuro non li ha analizzati. È vero infatti che in Siria, dove il 92,8% della popolazione è musulmana, negli ultimi tre anni c’è stata un’ondata di violenza religiosa ma la causa non è «l’unità confessionale», bensì la guerra dominata da gruppi terroristi islamici. Infatti, prima del 2011 il governo di Bashar Al Assad, che è un regime ma un regime laico, ha sempre garantito la libertà religiosa. Le testimonianze di ciò, raccolte anche da tempi.it, non mancano.

INSTABILITÀ IN IRAQ. La stessa cosa si può dire dell’Iraq: se in poco più di 11 anni gli scontri si sono moltiplicati e i cristiani sono passati da 1,5 milioni a 300 mila, è per l’instabilità del governo seguita all’invasione americana e per i continui scontri tra sunniti e sciiti, che non possono certo essere considerati fratelli di una stessa fede come i cattolici e gli ortodossi.

LAICITÀ E ISLAM. Per quanto riguarda Pakistan, Afghanistan, Somalia e Sudan il problema non risiede ancora una volta nell’unità confessionale in sé ma nella legge che fa di questi paesi Stati islamici piuttosto che laici, la maggior parte dei quali impone la sharia negando la libertà religiosa e punendo l’apostasia con la morte. Questi non sono frutti della mancanza di pluralismo religioso ma di una rigida interpretazione dell’islam, che non è propria di tutti i paesi a maggioranza musulmana. Lo stesso, mutatis mutandis, si può dire dell’India e dell’induismo.

AI CRISTIANI NON SUCCEDE. Perché, potrebbe chiedersi Alivernini, le stesse violenze non si verificano in paesi a stragrande maggioranza cristiana? Forse la Stampa risponde indirettamente alla domanda illustrando l’articolo con una foto del Centrafrica, paese quasi interamente cristiano che sta vivendo una stagione di incredibile violenza. Ma anche qui gli errori non mancano: la foto mostra un membro degli anti-balaka, che stanno dando la caccia ai musulmani, parlandone come di un gruppo “cristiano”. Le milizie sono invece a stragrande maggioranza animiste e gli amuleti vudù gris-gris che pendono dal collo del guerrigliero fotografato ne sono la prova.
Gli scontri confessionali, inoltre, hanno origine politica: se migliaia di milizie provenienti dal Ciad e dal Sudan (non dal Centrafrica) non fossero entrate a Bangui appoggiando il colpo di Stato di Djotodia dell’anno scorso e fomentando violenze ignobili, oggi il paese non starebbe vivendo questa situazione.

FIOCCANO LE ECCEZIONI. Come la mettiamo infine con le innumerevoli eccezioni alla tesi di Alivernini? La Nigeria ha un alto tasso di pluralismo religioso ma negli ultimi mesi sono morte migliaia di persone a causa dei terroristi di Boko Haram; la Cina è tra i 10 paesi più pluralisti al mondo, ma le violenze non mancano; il Kuwait è “moderato” tanto quanto l’Italia eppure i fondamentalisti chiedono di «demolire tutte le chiese della Penisola arabica». Infine, la Corea del Nord è tra i paesi con un «alto tasso di pluralismo religioso» e non c’è bisogno di aggiungere altro.

STABILITÀ SOCIALE. Alivernini conclude così il suo pensato e moderno articolo fregiandosi di smentire Niccolò Machiavelli: «La regola valida per tutti, in ogni caso, è che l’unità religiosa non è più un “instrumentum regni” che garantisce la stabilità sociale. Da qui a dire che il pluralismo garantisce la pace ce ne vuole ma già poter smentire il contrario potrebbe essere un passo in avanti». Avanti sì, ma verso la balordaggine.

@LeoneGrotti

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