Fermare Putin subito. Ma senza credere di essere il “governo globale” del mondo

Il presidente della Federazione russa Vladimir Putin (foto Ansa)

Su Formiche Emmanuele Rossi scrive: «Non è poco per due attori centrali del Mediterraneo allargato che hanno in più occasioni usato interessi reciproci per calcare i propri attriti. Ora il contesto è variato, quello mediterraneo è un bacino geopolitico che sta cercando un faticoso ordine interno, la Turchia è un paese che ha sovraesposto le proprie capacità su diversi dossier internazionali mentre in casa l’economia soffre una crisi storica. E Israele ne è conscio: percepisce queste fessure e accoglie la charm offensive di Erdogan, celebrata col cerimoniale da 21 colpi di cannone con cui è stato accolto Herzog; manifestata chiaramente dall’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, l’uomo che vuole ordine nella regione; continuata col nuovo governo israeliano di Naftali Bennett (che ha sostituito Benjamin Netanyahu con cui il turco non aveva un buon rapporto); resasi necessaria davanti alla strutturazione degli Accordi di Abramo con cui l’amministrazione Trump ha normalizzato le relazioni di parte del mondo arabo con lo stato ebraico».

Israeliani e turchi sono i due soggetti che stanno cercando più concretamente di trovare una soluzione ai problemi posti dall’invasione russa in Ucraina. Talvolta si ha la sensazione che lo facciano senza una piena collaborazione di Washington.

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Sul Sussidiario Antonio Pilati dice: «L’ingresso della Cina nel mercato mondiale, avvenuto senza cautele e condizioni; una politica contraddittoria verso la Russia (aperture europee e rigidità americane); le dispendiose guerre condotte in molti paesi senza cogenti obiettivi strategici (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria). Oggi siamo giunti a una sorta di redde rationem. E nelle posizioni altalenanti verso la Cina, verso la futura convivenza con la Russia, verso le nuove alleanze in Medio Oriente vedo una certa confusione strategica».

La mancanza di una visione strategica americana che – nonostante le rozzezze trumpiane (moderate però dalla sapienza di Mike Pompeo) – ha caratterizzato soprattutto le amministrazioni democratiche, ha preparato uno scenario i cui i vari soggetti hanno difficoltà a individuare le soluzioni: il che, in genere, produce guerre.

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Sul Post si scrive: «Secondo Philippe Sands QC, esperto di diritto internazionale all’University College London, la Corte non potrebbe però perseguire i leader russi perché la Russia non ha ratificato lo statuto. In teoria l’avvio dell’indagine potrebbe essere chiesta dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove però il governo russo ha il potere di veto, e quindi può bloccarne qualsiasi decisione. La Russia aveva già usato il suo potere di veto per bloccare l’avvio di un’indagine della Corte: nel 2014 Russia e Cina misero un veto a una risoluzione che avrebbe dovuto affidare alla Corte il potere di indagare sui gravi crimini internazionali commessi durante la guerra in Siria dalle parti coinvolte, anche dallo schieramento fedele al regime siriano di Bashar al Assad, insieme al quale combattevano i russi».

L’idea che gli equilibri internazionali possano essere risolti senza la diplomazia, cioè senza la politica, la persuasione che ormai esista di fatto un governo globale a cui appellarsi, sono convinzioni che preparano gli esiti più catastrofici: naturalmente i princìpi hanno un peso fondamentale nella scena mondiale e il prezzo che pagheranno i russi per aver infranto la sovranità ucraina sarà comunque alto. Però, poi, non si può trascurare la funzione della diplomazia e se ci si comporta umiliando, accerchiando e destabilizzando la seconda potenza nucleare del pianeta, si finirà per provocare qualche drammatica reazione. Mentre sosteniamo senza riserve il popolo ucraino e colpiamo giustamente con sanzioni Mosca, non possiamo dimenticarci anche l’altra faccia che la politica soprattutto americana verso la Russia ha dimostrato.

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Su Strisciarossa Paolo Soldini scrive: «Il fatto che ad Antalya non si sia cominciato a trattare sui contenuti del contenzioso non significa, comunque, che gli ultimi giorni e le ultime ore non abbiano portato qualche timido elemento di chiarezza. Dalle dichiarazioni ufficiali, dalle indiscrezioni che girano e dall’andamento stesso, sempre crudelissimo, delle operazioni militari sul terreno pare si possa dedurre che sul terreno della collocazione internazionale futura dell’Ucraina, la sua neutralità o meno, qualche passo in avanti si sia fatto. Kuleba ad Antalya ha ripetuto la formula secondo la quale uno Stato estero non può porre veti alla volontà di un paese di scegliere di aderire a un’alleanza. Ma al di là delle petizioni di principio, pare evidente – e lo stesso Zelenski lo ha ammesso – che di adesione alla Nato non si parla proprio più. E dopo che da Bruxelles sono venuti molti e chiari richiami alla complessità e alla necessità di tempi lunghi per l’ingresso nell’Unione Europea anche gli entusiasmi, un po’ strumentali, che hanno accompagnato la plateale firma della richiesta di adesione alla Ue da parte del presidente si sono alquanto raffreddati. D’altronde, poi, aderire all’Unione Europea è cosa ben diversa dall’entrare nella Nato (anche se un ex presidente americano e un ex presidente della Commissione di Bruxelles nei primi anni Duemila pensarono sciaguratamente che le due cose dovessero coincidere) e persino alla corte dello zar di Mosca si è levata qualche voce secondo la quale un’Ucraina nella Ue, fra molti anni s’intende, non sarebbe poi un grande pericolo per la Russia».

Tenere aperto il negoziato tra Mosca e Kiev è oggi il principale obiettivo di chi, oltre al sacrosanto principio che vanno fatti pagare i soprusi, ha a cuore l’avvenire del pianeta Terra.

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Sul Sussidiario Edorardo Canetta scrive: «Mi pare che nella situazione attuale si possa ammettere che, per ora, Putin stia vincendo, da tanti punti di vista. L’eroica difesa degli ucraini, che militarmente non può essere sostenuta dagli occidentali per la ragionevole paura di una terza guerra mondiale “aperta”, prima o poi è destinata ad essere vinta dal pur non efficientissimo esercito della Federazione russa».

Nelle trattative che vanno difese senza se e senza ma, il primo elemento da tenere fermo è un giudizio realistico sulla situazione, per quanto questo punto di vista possa essere eticamente difficile da accettare, la morale della pace è in diversi casi parzialmente differente da quella, pur ben superiore idealmente ma talvolta inefficace, della piena giustizia.

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Sulla Zuppa di Porro Laura Zambelli Del Rocino scrive: «In ultima analisi tornerebbe utile anche solo qualche viaggio in loco, lontano dalle “enclave” di Mosca e San Pietroburgo, diventate cliché nel nostro immaginario sulla base della nuova borghesia, gli oligarchi, lo shopping, ma anche dei giovani istruiti e critici che scendono coraggiosamente in piazza sfidando la sorte. La vera Russia non è questa, la grande Russia è quella delle province, delle campagne, è quella dove il tempo avanza lento e dilatato a braccetto con lo spazio, quella della vastissima pazienza, della rassegnazione, quella del sacrificio e delle privazioni, dell’imperialismo e del comunismo sulla pelle».

Tra gli elementi di realismo da avere sempre presente c’è anche quello di valutare con attenzione i sentimenti prevalenti, in parte tragicamente, in Russia. Non si può spiegare la psicologia di questo enorme paese, né si può studiare una strategia perché imbocchi la via dei diritti e delle libertà, basandosi solo sull’analisi psichiatrica di Vladimir Putin.

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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «L’Unione Europea ha preso una decisione sui rapporti energetici con la Russia ma ancora diversa: ha presentato un piano per rendersi indipendente dai combustibili fossili russi entro il 2030. “Non possiamo fare affidamento su un fornitore che ci minaccia esplicitamente”, ha detto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. La presa di coscienza è arrivata con l’inizio della guerra, ma la Russia si era già dimostrata un fornitore poco affidabile, che utilizza la limitazione delle forniture di gas come strumento di pressione politica. La proposta di Bruxelles per l’indipendenza dal petrolio, dal gas e dal carbone russi dovrà ancora essere discussa tra gli Stati membri. Realizzarla sarà estremamente difficile. Non soltanto, infatti, l’Unione Europea non è una grande produttrice di idrocarburi (a differenza degli Stati Uniti), ma è anche parecchio dipendente dalla Russia (a differenza del Regno Unito). Il gas russo vale circa il 40 per cento del totale importato; il petrolio circa il 30 per cento; il carbone circa il 50 per cento. L’obiettivo immediato di Bruxelles, come spiegato dal vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, è ridurre di due terzi le importazioni di gas russo entro l’anno. Per farlo, considerata la limitata disponibilità di gas sul mercato mondiale (lo ha ammesso il Qatar, importante esportatore di gas liquefatto), bisognerà aumentare le installazioni di impianti di energia rinnovabile. In questo modo, le fonti rinnovabili potranno venire utilizzate per la produzione di elettricità, permettendo un risparmio del consumo di gas».

La politica rispetto alla retorica ha il dovere di tener sempre fermo il principio di realtà.

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Su Startmag Pasquale Diana scrive: «L’attenzione si sposta adesso su quali saranno le mosse della politica fiscale in eurozona. Il conflitto in Ucraina e la pressione sui prezzi energetici rappresentano uno shock esogeno di fronte al quale le autorità fiscali non rimarranno indifferenti. Rimane da vedere che forma prenderà questo stimolo fiscale, e quanto sarà finanziato a livello europeo piuttosto che dai singoli paesi. Non è da escludere che la Bce possa in futuro riaprire le porte al quantitative easing per evitare che questo stimolo fiscale metta troppa pressione sui tassi. Al momento però la preoccupazione maggiore della Bce sembra essere l’inflazione».

La complessità dei problemi che abbiamo di fronte è una delle basi fondamentali per tener presente il principio di realtà nelle scelte che si devono intraprendere.

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Sul Sussidiario Andrea Pomella, docente di Storia economica, scrive: «C’è una contraddizione di fondo nell’atteggiamento dei paesi occidentali, i quali, mentre impongono sanzioni in nome dei princìpi liberal-democratici e di un ordine globale a guida americana, dall’altro lato avviano quel processo che mette in crisi le fondamenta stesse di un sistema che si basava sulla libera circolazione di merci e capitali. L’invasione dell’Ucraina ha ormai prodotto una crepa insanabile nel mondo piatto di cui parlava Thomas Friedman, basato sulla esternalizzazione, delocalizzazione e integrazione finanziaria, portando a compimento la polarizzazione dell’economia globale sui centri cinesi e americani».

Qualche altro elemento per comprendere la realtà effettuale delle cose con cui ci troviamo a dover fare i conti.

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Su Atlantico quotidiano Musso scrive: «Il tentativo di Draghi è, manifestamente, di impossessarsi del tema della guerra economica permanente con la Russia – che abbiamo visto servire alla Nato per organizzare l’ordine in Europa principalmente in termini militari, cioè a detrimento della Ue. La Ue non deve sparire, però. Bensì fornire i soldi per finanziare quanto la Nato comanda. D’altronde, Washington già provvede fondi enormi alla difesa militare dell’Europa. Fa ciò che può: interviene sui grandi mercati delle materie prime, come sta provando a fare con Arabia ed Emirati, Iran, Venezuela. Ma non può certo finanziare lei le spese di Draghi (o della Slovacchia, o della Grecia). A queste deve pensare la Ue, cioè i tedeschi».

L’analisi di Musso mi pare in qualche punto particolarmente intricata, ma il tentativo di guardare la realtà effettuale delle cose, senza cedere alla consolazione della retorica, la considero una scelta fondamentale.

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