La battaglia di Amicone contro tutte le ideologie. Per primo il moralismo

Marina Corradi, Paolo Maninchedda e Mario Mauro in omaggio al fondatore di Tempi e alla sua «militanza per la verità delle cose». Nell’incrollabile «certezza che, alla fine, vince Lui»

Pubblichiamo di seguito gli interventi di Marina Corradi, Paolo Maninchedda e Mario Mauro alla serata “Omaggio a Luigi Amicone” organizzata sabato 13 agosto a Sassari dall’Associazione Sandalion Umanamente in occasione dell’uscita di Luigi Amicone, l’anarcoresurrezionalista. A moderare l’incontro Francesco Valenti, autore dell’introduzione del libro. Il volume – che raccoglie scritti scelti del fondatore di Tempi, oltre a una prefazione di Giuliano Ferrara e a una postfazione di Annalena Valenti, moglie di Amicone – è acquistabile online sul sito dell’editore Itaca

* * *

Francesco Valenti

Ci è sembrato importante ricordare la figura e l’opera di Luigi Amicone, e farlo durante questa prima estate, qui in Sardegna, a meno di un anno dalla sua morte, avvenuta a Monza il 19 ottobre 2021.

Non è stato un caso, infatti, che ai funerali di Amicone, nel Duomo di Monza, sia risuonato il grande canto sardo del Deus ti salvet Maria. Perché Luigi, insieme alle sue radici abruzzesi, alla sua nascita milanese, al suo essere ambrosiano e radicato nella terra lombarda per studi e vita, sentiva questo luogo, che lui ha incontrato tanti anni fa da turista, come molti tra i presenti, ma che sentiva ormai come suo, per le grandi amicizie e la storia di questa terra, a tal punto che ha passato gli ultimi due anni della sua vita qui in Sardegna.

L’occasione di questo nostro incontro è l’uscita del libro Luigi Amicone. L’anarcoresurrezionalista. Scritti scelti, già presentato a Caorle nello scorso mese di luglio. “L’anarcoresurrezionalista”: il gioco di parole è sul calco di “anarco insurrezionalista”; è un gioco di parole in cui la parola “insurrezionalista” è stata sostituita da “resurrezionalista”, e che, pare, venne attribuito a Luigi per la prima volta da Giovanni Testori, che lui ha conosciuto in giovane età e frequentato, ed è una definizione che Amicone sentiva molto sua. Perciò, con gli amici di Tempi, che hanno curato questo libro, si è pensato fin da subito che fosse la definizione di sé che lui più avrebbe amato.

A parlare con noi ci sono tre autorevolissimi relatori, e amici di Luigi Amicone, che ringraziamo: Marina Corradi, Paolo Maninchedda e Mario Mauro. Il caso ha voluto, o può non essere il caso, che i relatori esprimano le quattro dimensioni fondamentali che sono appartenute alla vita di Luigi Amicone, il lavoro di giornalista, l’insegnamento, la cultura e la politica.

Marina Corradi giornalista notevole, e di scuola importante, nasce come cronista nera alla Notte, scrive poi su la Repubblica, per poi passare ad Avvenire come inviata e attualmente come editorialista. Collabora, fin dalle sue origini, con Tempi, il giornale creatura di Amicone.

Paolo Maninchedda è un protagonista della cultura sarda, con attenzione al sociale, ed è docente di Filologia romanza all’Università di Cagliari; egli assomma in sé due categorie, come detto, che sono appartenute a Amicone, la profonda cultura – tra l’altro Amicone aveva una seconda laurea proprio in Lettere – e anche l’insegnamento: non va dimenticata sia la passione di Luigi Amicone per l’educazione sia il fatto che è stato insegnante, almeno nei primi anni della sua carriera professionale.

Non ha quasi bisogno di presentazione Mario Mauro, politico importante, già ministro della Difesa del governo italiano, per anni parlamentare europeo, poi senatore del nostro Parlamento, sempre coinvolto con la passione politica che infiammava anche Amicone, come, d’altra parte, spesso il giornalismo.

A loro abbiamo chiesto di ricordare Luigi attraverso questo libro che noi stasera presentiamo e che, nelle modalità che loro ritengono, possono tenere presente. Ringraziamo perciò calorosamente, in anticipo, i nostri relatori per la ricchezza del loro contributo.

Vorrei aggiungere solo due cose che mi sembrano di rilievo.

La prima è un particolare ringraziamento a chi ci ospita a Sassari. La sala in cui ci troviamo è quella del gruppo Allianz assicurazioni. Franco Mascia, che qui ne è l’amministratore delegato, ha voluto questo luogo di ritrovo culturale e di formazione per ricominciare, per rinnovare un certo livello di impegno anche esistenziale, di vita e professionale. E tutto questo lo ha compiuto proprio grazie a Luigi Amicone, che l’anno scorso lo ha incoraggiato assolutamente a intraprendere questa sala convegni, che in modo, non so come definirlo, diciamo paradossale, nel senso profondo di questo termine, questa sera noi inauguriamo. Apriamo una sala che vuole essere un luogo di cultura, un luogo di formazione professionale di giovani, di letture, di convivenza e di amicizia, secondo quanto gli amici di Sassari e della Sardegna faranno. Nessuno avrebbe immaginato di inaugurarla parlando di Luigi Amicone in questo modo, ma mi pare un incontro di enorme portata. Ringrazio nel contempo anche Paola, Giovanna, Grazia e naturalmente Annalena per l’idea di questo incontro emersa qualche sera fa a Alghero, insieme a Franco, Mario e Gianfranco. Ricordo, perché altrimenti Mascia dopo non mi fa più uscire, che a conclusione dell’incontro siete tutti invitati al buffet che pare presenti prelibatezze sarde straordinarie, e immagino che l’ora possa essere adatta.

In secondo luogo, per promuovere la lettura di questo libro, vorrei leggere una frase della prefazione di Giuliano Ferrara, davvero sconvolgente, e ben pertinente a quel termine “teologia politica” che Mario Mauro può certo approfondire: «Luigi era il movimento, i movimenti, l’esperienza diretta di Cristo quando Cristo era scomparso dall’orizzonte del razionale e del reale». È a pagina 1 del libro, figuratevi quel che c’è dopo. Grazie a tutti voi.

* * *

Marina Corradi

Ieri mattina dovevo venire in Sardegna, venire qui, e mi sono svegliata alle sei per andare a Linate. E sapete come a volte al primo istante, al risveglio, la realtà non si presenti in maniera ordinata. E mi sono detta: «Che sogno strano che ho fatto! Dovevo andare in Sardegna per un incontro su Luigi, in memoria di Luigi… In memoria? Ma che vuol dire?». Poi, mi sono ricordata. E mi è sembrato impossibile – non è passato nemmeno un anno: tuttora mi sembra impossibile. L’ultima volta che l’ho visto qui in Sardegna, agosto 2021, siamo andati a Cala Sarraina, in Gallura, un posto che amo molto perché c’è uno scoglio a forma di divano, e io ci vado sempre a nuoto. Luigi invece, che era una specie di stambecco, ci arrivava arrampicandosi per scogli erti e a strapiombo.

Quel giorno, l’ultimo nostro insieme in Sardegna, io sono andata a nuoto, mentre lui con altri scalmanati si arrampicava in alto, sempre più in cima, sempre più sul crinale – oltre, c’era il vuoto. E Luigi continuava a chiamarmi perché io già una volta, due anni prima, avevo rischiato di affogare, dalle parti di Badesi – 118 e cose così – e temendo che affogassi di nuovo mi chiamava: «Marina! Marina!». E io pure da sotto lo chiamavo: «Luigi!», perché lo vedevo là su quei bricchi, ed ero terrorizzata che volasse giù. E questo è l’ultimo ricordo sardo che ho di Luigi.

Prima di cominciare a parlare del suo libro però voglio raccontarvi anche la prima immagine che ho di lui, che per me è indelebile. Vada, nel Livornese, luglio 1995. Fuori dalla chiesa del paese, stracolma alla Messa di domenica. Ero uscita a respirare perché avevo una pancia al nono mese. Lui invece era fuori a fumare. Non sapevo chi fosse, non lo conoscevo. E vedo questo tipo con delle braghe militari, un gilet militare, una camicia a banane, dei sandali fluorescenti – insomma, di un colore indefinibile – e i capelli sconvolti. E penso meravigliata fra me: «Certo che nel popolo di Dio ce n’è, di gente strana!». Poi mi hanno detto che quello era Luigi Amicone. Io ho questa immagine di lui: ma quello, era proprio lui. Lui che si divertiva a sconcertare, mentre tutti cercavano di essere eleganti con la griffe giusta, lui che giocava a prendere in giro l’ossessione della moda. Lui, che aveva nel Dna qualcosa di controcorrente, di guerriero, e doveva mostrarlo.

Ecco allora, la prima cosa che trovo di Luigi in questa bellissima antologia di suoi articoli, è un suo commento ad Hannah Arendt: quando scrive che in tutti i discorsi filosofici che si possono fare intorno a un tavolo, «è il tavolo ciò che genera lo shock filosofico», cioè la realtà, la concretezza della materialità. Questa osservazione mi è piaciuta moltissimo perché io spesso da giovane, come inviato, venivo mandata ad intervistare filosofi e professori sul senso della vita, sull’evoluzione del mondo, la crisi del cristianesimo e quant’altro. Questi sapienti mi sommergevano di parole e io non ne potevo più, e guardavo il tavolo e pensavo: «Vorrei dirgli: professore, senta, mettiamoci a tavola, è quasi ora di cena, tagliamo un salame e del pane e ricominciamo da lì. Dal pane e dalla fame, perché lei mi sta andando troppo su per le galassie. Cioè, io non capisco più niente. La realtà, il nucleo della realtà invece è semplice. L’uomo ha bisogno di poche cose, e adesso ce le siamo dimenticate».

Quali poche cose? Ieri mattina a Linate ero frastornata dal luccichio di firme, di “roba” costosissima e inutile che brillava nelle vetrine del duty free shop. Ecco, penso che Luigi avrebbe reagito come me. Abbiamo bisogno di calze: ma non di calze di cachemire, o ricamate. Abbiamo bisogno di mangiare, ma non di soufflé di punte di asparagi e menta di montagna, escogitati pensosamente da uno chef: mi pare di vedere in questo una idolatria del cibo.

Ecco, Luigi era un uomo, secondo me, semplice, e su questo benché venissimo da storie diverse ci ritrovavamo molto. Soprattutto nel ridere. Quanto ridevamo, insieme.

Un’altra cosa che ci univa e che ritrovo in questo libro è il “mestiere”, come Luigi chiama il giornalismo, con una sfumatura che sa un po’ di losco. “Il mestiere”… insomma, vuole dire tante cose…

Luigi diceva come ogni fatto ti scorre sotto la tastiera in un baleno – anch’io ho lavorato con lo stesso ritmo per quarant’anni – e devi sapere tutto subito, scrivere tutto quello che sai e anche quello che magari non sai ancora, e tutto si brucia in 24 ore, e dopo due giorni ti dicono: «Ah, ormai è notizia vecchia!». Luigi credo provasse questa mia stessa sensazione di impotenza per le parole che fuggono. Oltre a una sua particolare insofferenza contro la potenza dell’ideologia che ci domina, nel Verbo dei media. Scriveva: «Per l’ideologia ogni uomo è ammasso di carne, sentimento funzionale all’impresa, sia essa classe, razza, servizio di un Dio o di una vita senza senso. Per l’ideologia non esiste il Mistero». Molto vero. Il giornalista è spesso cinico e non vede quell’aura di mistero che c’è in quasi ogni evento, soprattutto se sanguinoso. Non vede che al di là di ogni male c’è una fessura da cui, come scriveva Amicone, «Cristo come lucertola sbuca dagli interstizi della terra prosciugata, dal dolore risorge. C’è sempre Cristo, che risorge».

Questo è l’asse portante per me di Luigi, ed è anche quello che mi ha insegnato. Perché quando io l’ho incontrato avevo un marito di Cl, avevo degli amici di Cl, ero da poco sposata, mi piaceva leggere Giussani – che non avevo mai conosciuto, non venivo dalla Università Cattolica ma da tutt’altri giri –, però questa gran passione per Cristo non riuscivo a metterla a fuoco. È stato Luigi, nella sua eredità puramente giussaniana, a insegnarmi la passione per Cristo, la fedeltà totale. La certezza che, alla fine, vince Lui. Io devo questo a Luigi. Prima di diventarne amica, ero una cristiana pallida.

Avevamo in comune anche una certa tenerezza per i disgraziati. Ricordo che lo incontrai molti anni dopo quella domenica del ’95, non c’eravamo più visti. Lo incontrai per via di un convegno a Torino, a cui nessuno dei due aveva voglia di andare. Ma ci andammo in auto insieme da Milano, e ci ritrovammo. Dopo pochi giorni gli scrissi un’email perché avevo visto un bambino zingaro sui cinque anni, piantato dalla madre davanti a una chiesa e poi la madre chissà dov’era andata, e questo bambinetto solo e sporco chiedeva l’elemosina a Milano, nel centro di Milano, ed era una cosa insopportabile. Dopo aver chiamato il 113, che grazie a Dio aveva mandato subito una pattuglia, avevo scritto ad Amicone, arrabbiata e addolorata: e questo mio dolore l’aveva commosso, perché anche lui amava i poveracci. Infatti è bellissima, nel libro, quella che io chiamerei “la ballata dei briganti”, quando parla dei detenuti “fine pena mai” nel carcere di Padova, di come lui andava lì a insegnare, di come loro lo guardavano. E come uno di loro, muto e torvo per tutte le lezioni, lo ringrazia alla fine, e lo commuove.

Vi racconto una cosa. Un anno fa, quando io avevo già il mio nipotino, a mezzogiorno gli stavo dando la pappa. Suona il citofono ed era Luigi, che ogni tanto passava a trovarci. Apro la porta e lo vedo con due amici. Mai visti. Scopro che uno di loro è uno di quelli del carcere di Padova, un “fine pena mai”, e quel giorno aveva un breve permesso. Un ex della banda Turatello che imperversava a Milano negli anni Settanta, diciamo uno che ne aveva fatte alcune. Ora, un uomo completamente cambiato. Grande amico e ammiratore di Luigi.

Così Amicone mi aveva portato a casa questo amico ergastolano, e a mio nipote in seggiolone, che aveva otto mesi, quando se sono andati Luigi ha fatto battere il cinque contro la mano dell’ex compagno di Turatello. Il bambino rideva, e Luigi era tutto soddisfatto.

Avevamo in comune anche il frequentare per mestiere luoghi simili, se non proprio gli stessi. Luigi ad Haiti arriva e vede sbalordito il terremoto, la miseria, lo sfascio. Ma vede anche altro. Scrive: «Eppure ci deve essere una forza infinita se queste donne riescono a vestirsi ancora con panni lindi e colori sgargianti, e a vestire i loro figli puliti. Ci deve essere un mistero più grande di tutte le nostre disponibili e supposte ricchezze spirituali se dall’ultima bolgia del Tartaro spuntano questi occhi di bambini a volte piangenti, ma mai disperati». Io non sono stata ad Haiti, sono stata a Gulu, in Uganda, al Lacor hospital, dove l’ebola anni prima aveva fatto strage. Ricordo le lenzuola candide, i malati delle malattie più infami grati di avere un letto pulito. E come sorridevano a un’infermiera che porgeva un bicchiere d’acqua, in uno straordinario silenzio, quasi claustrale.

Avevamo visto cose simili. E anche grazie a lui avevo imparato a riconoscerci dentro quella Presenza, senza la quale il mondo sarebbe disperato. Perché io davvero, confesso, non riesco a capire: se uno non ha la speranza della Resurrezione che ci dà Cristo, non so capire come guarda i suoi figli, perché se una disgrazia glieli toglie non li rivedrà mai più.

Luigi mi aveva trasmesso questo. Una speranza che non ha niente a che vedere con quello sguardo distratto, col sentimento mutevole e capriccioso, col sapere di Voltaire come mantra, in cui siamo immersi. Luigi, era tutto il contrario. Lui era un uomo coscientemente “contro”. Era sempre, in fondo, apparentemente dalla parte sbagliata delle cose. Delle battaglie. Qualcuno ha scritto che Amicone ha perso tutte le sue battaglie. Però, forse, erano battaglie giuste. Non è detto che averle perse sia un di meno.

Ricordo, ancora, che Luigi racconta nel libro del suo arrivare ad Haiti e ammettere che nel casino disperato, le rovine, i morti, l’Onu, le Ong…, gli unici che alla fine riuscivano a procurare acqua potabile a quella gente erano i marines americani. Io ho avuto la identica sensazione nello tsunami, gennaio 2006, a Banda Aceh, Indonesia, centomila morti: quando c’erano i cadaveri che ancora galleggiavano, le bande di cani inselvatichiti che ululavano di notte, ma gli unici che montavano enormi tende con una croce rossa sopra – e questo doveva pure dire qualcosa – erano gli americani che purificavano l’acqua dei pozzi, perché sennò si moriva tutti di colera. Avevo pensato a quella croce sulle tende perché quegli indonesiani, islamici integralisti, immobili sui gradini di casa a quindici giorni dallo tsunami, lasciavano galleggiare i morti nelle risaie: atterriti dal castigo del loro Dio. E invece gli americani, gli americani detestati dai sessantottini e da tanto Occidente, pensavano a ricostruire: perché nella cultura cristiana non c’è mai la resa alla morte, c’è sempre la speranza e l’urgenza di ricominciare. Ho visto a Banda Aceh una suora che diceva in italiano, piangendo: «Queste risaie invase dal sale dell’oceano non faranno mai più riso». Era una piemontese. Però subito aveva aggiunto: «Ho sentito però che c’è una specie di riso che…». E di nuovo sperava. Queste cose abbiamo visto in luoghi diversi, in momenti diversi, Luigi ed io.

Abbiamo litigato, moltissimo. Soprattutto negli ultimi anni. Sulla Lega, su altro. Lui veniva la sera a mangiare gli spaghetti a casa nostra, poi beveva due whisky, quindi apriva il fuoco a trecentosessanta gradi. E se si finiva a parlare di politica ci si incazzava. Però il bello è che non voleva dire niente. Nel senso che non era quel tipo di incazzatura che ti fa dire: ah beh basta, io con questo non ci parlo più. Il nostro rapporto era tale che litigare non contava niente. A volte gli dicevo: stasera lasciami perdere, che non ho voglia di fare a botte. Però era sempre più forte questo rapporto.

È strano, c’eravamo detti che eravamo quasi come fratelli separati alla nascita. Lui scrive che era un figlio dei primissimi divorziati, nel ‘73. Io, anche. C’eravamo portati avanti, col nichilismo. Lui poi si è fatto una famiglia con sei figli, io più modestamente con tre. E tutti e due siamo approdati per vie diverse, abbastanza rocambolesche, allo stesso approdo. Per me è stata, mi vergogno a dirlo davanti a sua moglie Annalena e ai suoi figli, è stata una cosa micidiale perdere Luigi, è stato veramente perdere un fratello.

Ripensando a quelle nostre risate, e alle liti furibonde e alle sue provocazioni, mi viene in mente una sua frase di questo libro: «Ci vogliamo ancora bene? Certo che sì. Non solo. Con il tempo che passa e Dio che viene, il bene è diventato anche più largo, e asciutto».

* * *

Paolo Maninchedda

Ringrazio molto per essere stato invitato a ricordare Luigi, per essere ospite di un suo grande amico che è Franco Mascia, e per essere anche onorato dall’attenzione della moglie Annalena.

Io dovrei illustrarvi le ragioni per leggere il libro di Luigi. Proverò a farlo partendo dalle più semplici.

Luigi rispettava un’antica regola cristiana: non si sacrifica a Cesare, che tradotto significa che non c’è potere che sia in grado di rispondere alle domande fondamentali dell’uomo, domande che nel libro trovate declinate nella forma del reportage, ma anche della poesia. Quali sono queste domande?

Perché abbiamo coscienza di noi stessi (il “perché ci accorgiamo di noi?” di Pasolini)? Perché veniamo generati dalla natura con un’attesa di felicità che la Natura non può soddisfare (la domanda di Leopardi che tanto piaceva a Giussani)? Perché desideriamo vivere e invece moriamo? Perché la materia ha un’età e sembra nata dal nulla (la celebre constatazione di Pascal per cui “tutte le cose sono uscite dal niente e portate fino all’infinito”)?

I primi cristiani non sacrificavano a Cesare per fedeltà a Dio, ma il loro gesto significava anche che Cesare non poteva tutto, che Cesare non aveva a che fare col loro destino, non era tutto. Le forme moderne di Cesare sono le ideologie, i totalitarismi e tutte le dittature e egemonie più o meno esplicite di cui il nostro presente è ricco. Luigi le ha combattute duramente.

Le ideologie sono modellizzazioni della realtà che ambiscono all’universalità e alla definitività. Ambiscono a mostrarsi come la ragione del mondo e come tali devono annichilire tutto ciò che non è compreso nel loro modello, che in genere è veramente tanto. Fa questo l’ideologia: esclude e acceca.

La grande battaglia culturale combattuta da Cl nel trentennio che va dagli anni Settanta ai Duemila è stata una grande resistenza anti-ideologica non solo contro il marxismo, il materialismo, il cinismo e i loro cascami, ma anche contro il moralismo, l’ideologia più semplice e più feroce, quella che Luigi chiamava giussanianamente «pallido sostituto del vero».

Il problema del moralismo è la rimozione del male, dell’imperfezione umana e del peccato per decreto volontaristico e per disciplina pubblica. È l’antico tema di coloro che si ritengono giusti per aver rispettato le regole, la legge. Poi, puntualmente, gratta gratta, si scopre che non è mai oro quel che luccica, e che spesso dietro impeccabili virtù stanno strutturati egoismi, sottili prevaricazioni, un mare di vittime, nessuna soddisfazione e nessuna attesa di felicità, solo studiati percorsi di affermazione sociale. Il prodotto del moralismo è l’uomo scisso, l’uomo con la maschera, l’uomo che teme la libertà e l’amore perché imprevedibili, appunto il pallido sostituto del vero. Luigi, a differenza dei moralisti, non credeva che un uomo fosse definito dalle sue azioni. Invece, per quasi tutti oggi, l’errore è per sempre.

E come si combatte il moralismo? Stando alla verità delle cose, avendo il coraggio della verità delle cose. In fondo c’è nella militanza di Luigi per la verità delle cose, che presuppone l’imperfezione degli uomini ma non accetta la loro riduzione a strumenti dello scontro tra poteri, una radicale fedeltà a una peculiarità di Cl: non scappare mai di fronte alla realtà, semmai impegnare la cultura della fede per capirla. Faccio degli esempi.

Luigi non ha mai smesso di affermare che a guidare Tangentopoli è stato un teorema etico-politico, di punizione e rigenerazione dello Stato, perseguito senza mandato popolare e senza controllo. Che il sistema politico italiano uscito dalla Guerra fredda fosse marcio nessuno lo negava né lo nega; che in esso si fossero annidati dei briganti di passo avidi di ricchezza è altrettanto vero; ma che esso fosse una sorta di sistema estorsivo organizzato dalle forze di governo ai danni della società, della democrazia e delle forze di opposizione, è falso, e la vicenda Craxi ne è la cartina di tornasole.

Luigi non ha mai smesso di difendere Formigoni, il cui presunto tesoro non è mai stato trovato, né è mai stato dimostrato che egli abbia tentato di accumularlo, e il cui processo è esemplare rispetto al caso, non raro in Italia, della giurisdizione che supera, per diritto morale, la legge, e si erge a punire un presunto peccato di comodità e di felicità come un reato. È accaduto questo e Luigi non ha mai smesso di dire che è accaduto. Ed è questa passione per il vero che lo portava anche a contestare a certo mondo cattolico di essere molto impegnato nella attività caritatevoli, ma non altrettanto nel prendere una posizione chiara e definita rispetto alla cultura dominante. Spesso contestava a questo mondo di usare l’equivoco del dialogo per non dire la propria sulla cultura dominante, sulla cultura del denaro al potere.

Luigi non ha mai frainteso il successo in questo mondo come segno di Grazia, il grande tema calvinista affrontato da Giussani in un suo libro sul protestantesimo americano. Anzi! La sua affinità con la parte migliore di Pasolini era anche nella contestazione del profitto come ideologia, come modello del mondo che troverebbe le sue ragioni nel produrre ricchezza, nell’orientare i bisogni e i desideri degli uomini, nell’affidare ogni qualità a una competizione apparentemente regolata ma sostanzialmente guidata dal più forte, in una parola, nell’intendere la vita come un’occasione per cimentare l’intelligenza nel far soldi e nell’usare gli altri per i propri scopi.

L’idea che la religiosità popolare fosse un grande antidoto a questa gabbia di pensieri e metodi, era molto radicata in Luigi. Il popolo dei poveri del Sudamerica o del Madagascar o di Haiti gli risultava più intelligente e sincero nell’identificare ciò che gli corrispondeva di quanto mostravano di esserlo tanti commentatori engagé della stampa italiana. È come se nei carcerati, nei poveri delle favelas del mondo lui trovasse un tipo d’uomo precedente quello comune contemporaneo europeo e più autentico nel dichiarare le sue attese e le sue risposte, più autentico perché più conscio del limite e dei limiti dell’esistenza.

Poi si capisce un’altra cosa: che tutto ciò che vi ho detto derivava dalla sua fede. Aveva una fede semplicissima: Gesù Cristo fondamento e destino di tutte le cose. Ed era l’interprete di una delle più grandi battaglie di Comunione e Liberazione, che forse si sta dimenticando: la difesa dell’attingibilità del Cristo storico attraverso il Vangelo.

Io sono un filologo, mi capita di sentire e di leggere, purtroppo, testi di autorevoli rappresentanti della Chiesa cattolica che di fatto sono scivolati sulla posizione di chi dice che attraverso i Vangeli noi possiamo capire il Cristo della fede ma non il Cristo della storia. Non è cosi, non è assolutamente così.

Badate, i testi, i Vangeli, sono testi complessi, contraddittori, stratificati, ci dicono molto dello sforzo di comprensione fatto nei 50-60 anni dopo la resurrezione. Ma vi assicuro che letterariamente e strutturalmente questi testi non sono spiegabili a partire da una grande bugia. Non si riesce a spiegare l’origine di questi testi se si presuppone che essi partano da una grande bugia. Secondo Bultmann e altri, invece, la resurrezione andrebbe affrontata né più né meno come la filologia classica ha affrontato i miti greco-latini, e cioè scandagliandone le radici, gli obiettivi ermeneutici e allegorici; insomma, la resurrezione, come i miracoli, andrebbe intesa come grande architettura mentale e culturale volta a dare un senso a un dramma, cioè la morte di Cristo in croce. Sarebbe una sorta di superamento per immagini e intuizioni del solito problema della soglia della morte. Non dunque una bugia in senso letterale, ma una grande sublimazione, un processo di divinizzazione più sofisticato di quello usato dai latini per rendere divus l’imperatore defunto, ma sostanzialmente con esso coincidente nell’eternare il messaggio oltre la dissoluzione dei corpi.

Un’operazione così sofisticata e dolosa non avrebbe lasciato nei testi i segni profondi che noi vi leggiamo di una storia completamente diversa, la quale inizia senza testi scritti, senza elaborazioni narrative geometricamente convergenti verso uno scopo dichiarato; una storia dunque che inizia senza dolo mitico, ma semmai con tanti racconti non tutti coerenti tra loro se non in un punto: è morto, è risorto.

Un altro argomento è che i seguaci di Gesù avevano una tale e dichiarata paura del potere da scappare dinanzi ad esso e non avrebbero in alcun modo avuto le forze per contrapporsi ad esso per la venerazione o per il semplice ricordo di un morto. Il cristianesimo nei suoi esordi non fu accompagnato dal successo, valido alimento di una bugia, ma da fatiche, persecuzioni e morti.

Il terzo e ultimo punto è che nella stratificazione dei testi è evidente che il primo annuncio cristiano era semplice, grezzo, privo di teologia e ricco di memoria. Consisteva in questo. Cristo è risorto. Gesù è la buona novella. Ricordiamo e facciamo ciò che egli ha detto e ha comandato di fare. Tutto qui. Il nucleo originario era questo: nessuna complessa teologia. Annuncio, Memoria, Fratellanza, Testimonianza. Nient’altro. Due soli sacramenti: battesimo e eucarestia. Gesù è, come Lui aveva detto di sé, Buona Novella. Non punizioni, non giudizi, ma solo salvezza e riconciliazione. È un messaggio di accoglienza dell’umanità che nessuno si aspettava, tanto meno il popolo ebraico.

A Luigi piaceva molto la frase di Oscar Wilde secondo cui Gesù non ha mai giudicato nessuno, ma chiunque al suo cospetto diviene qualcuno. Perché questo accadrebbe? Perché Gesù coglie il vero delle persone, ha la forza di separare ciò che è fragile, storico, caduco, da ciò che è eterno. Wilde sapeva benissimo che se un uomo si guarda da solo allo specchio, può farlo solo se mascherato, altrimenti si terrorizza. Se si specchia in Gesù, si perdona e vive. Questo significa essere realmente uomini, essere qualcuno.

Ora, voi che avete tra le vostre fila persone così forti da essere memores Domini, credo possiate fare uno sforzo per il ricordo di un uomo che merita di essere ricordato, che merita la memoria hominis. Con certezza avrà la mia.

* * *

Mario Mauro

Ma in realtà io guardavo voi, guardavo chi c’è oggi e non c’è uno di voi, neanche uno, che, rispetto a me, nel rapporto con Luigi non abbia contato di più, cioè non abbia di più da dire di quello che posso dire io. Non c’è uno solo di voi che non abbia un pezzo di storia maggiormente ancorato a quello che è stato il dipanarsi e il manifestarsi di una Grazia, la grazia che lo ha letteralmente travolto. Una grazia che si è espressa dentro la nostra storia comune, una storia che ha attraversato mari e montagne perché se si è resa presente con “l’ingenua baldanza“ che ne ha caratterizzato l’esistenza innanzitutto nella sua Milano.

Non è la Lombardia il luogo in cui ho conosciuto Luigi Amicone. Io ho conosciuto Luigi Amicone a Stornara, un posto bruciato dal sole che d’estate arriva anche a 43-44 gradi dove Luigi è arrivato e si è ammalato. Ero giovanissimo, ma ero uno dei pochi nella zona che frequentasse il liceo e sono stato chiamato dagli amici della comunità di Stornara che lo accudiva in quella circostanza.

Scusate, devo usare una serie di espressioni dialettali, però per farvi capire proprio com’è stato l’inizio del nostro rapporto. Mi chiama Rocco Torraco, responsabile della zona e mi dice queste testuali parole: «Mario, tu ca parli italiano, puo veni acca’, che qua ci sta nu bravu guaglione ma nunn’o capimmo stu giovane». Perché per l’appunto Luigi, che credo allora fosse matricola di Scienze politiche all’Università Cattolica, e quindi io ero ancora più piccolo, qualche anno di meno, era, diciamo, un intellettuale già allora, cioè era a tutti gli effetti una sorta di Jack Kerouac delle nostre pianure pur nell’approssimazione di un ragazzo che aveva studiato al Molinari, rispetto a chi come me che poteva vantare un pezzo di strada nel liceo classico della provincia meridionale, e quindi con la prosopopea tipica di tutti quelli che hanno provato a diventare filologi ma non ci sono riusciti. (Riferimento ironico al professor Maninchedda).

Però dentro quell’incontro e soprattutto nella ricchezza della ripresa di quell’incontro che per me è stata la circostanza più ovvia, quasi scontata, quando io ho fatto la cosiddetta “maturandi” e quindi sono andato a Rimini per l’incontro voluto da Comunione e Liberazione che prestabiliva che tu potessi confrontarti nel corso di una testimonianza con qualcuno che avesse qualcosa da raccontare, re-incontro Luigino Amicone, finalmente ripreso, dimenticato il pallore di quei giorni, di malattia forzosa e che ha fatto per me, in quella circostanza, ciò che io gli ho visto rifare cento e cento volte nella vita in circostanze anche drammatiche, cioè ha testimoniato la verità dell’incontro cristiano e la bellezza e il fascino del pensare e del vivere da cristiani e quindi dell’aprirsi alle ragioni degli altri.

Lo dico perché, quando sono diventato parlamentare europeo, io a Luigino in alcune circostanze sono servito da “copertura”. Quando abbiamo visitato Mario Tuti nel carcere di massima sicurezza di Pavia piuttosto che Adriano Sofri nel carcere di Pisa, abbiamo usato la prerogativa del parlamentare per poter avere accesso a delle persone che altrimenti per lui sarebbero rimaste precluse. Ma lo sfolgorìo di quella evidenza, la bellezza, l’imporsi di una accoglienza senza pregiudizi nei confronti di chiunque che era sua cifra caratteristica, testimoniata in quegli incontri, mi apre a parlare di una questione di cui parla in modo esplicito nella prefazione Giuliano Ferrara, e cioè l’idea che Luigino possedesse la categoria della “teologia politica”.

Questa è una questione molto seria che io vi invito a non trascurare. Per me, con grande semplicità, Luigino è il D’Artagnan di Comunione e Liberazione. Cioè è un guascone che ha vissuto attraverso la categoria della teologia politica che è l’entusiasmo, ”Dio dentro di te”, la capacità di rendere pubblico ciò che è vero. Questo è il cuore della questione, per cui anche se ci si beccava sulla politica o si litigava sugli scenari di geopolitica, Luigino non ha avuto altro “partito” in vita sua che Comunione e Liberazione.

È stato realmente l’eletto di Comunione e Liberazione, in ogni senso, perché ha portato dentro di sé quel germe che alcuni inopportunamente hanno cercato di ridurre a una sorta di parafrasi della destra teocon americana, cioè l’idea di un conservatorismo sociale e politico che sotto le forme della religione facesse capziosamente da sottobosco di una opzione politica, per l’appunto di potere. Ma in Luigino non solo non c’è mai stato il germe dell’ideologia, ma devo dire che il suo modo di approcciare le cose era un antidoto naturale all’ideologia.

Che cos’è infatti – riprendo quello che diceva Paolo Maninchedda – l’ideologia? L’ideologia è un modo di guardare alla realtà che costringe la realtà dentro una riduzione e una definizione che la uccide. Quando Lenin e Stalin prendono il potere in Russia nel 1917 vogliono il bene degli operai e vogliono fare una società su misura per gli operai. Nel ’17 in Russia gli operai non ci sono. Ci sono invece milioni e milioni di servi della gleba, di contadini, e siccome c’erano nell’Ucraina di allora come in quella di oggi piccoli contadini proprietari, i kulaki, che sfuggivano allo schema che il partito proponeva, li prendono tutti e li uccidono: 20 milioni di morti. Così come quando Hitler scrive il Mein Kampf, scrive che l’uomo è il centro del cosmo e della storia, quasi parafrasando in anticipo quelle che saranno le parole di Giovanni Paolo II. Ebbene scrive anche, da pagina 45, che gli ebrei non sono uomini e perciò è del tutto legittimo disporne come meglio si crede.

L’ideologia è questa: è la riduzione della realtà a quello che abbiamo in mente. È come un bambino a cui si chiede di restituire l’ennesimo cioccolatino che ha preso tra le mani perché gli farebbe male e quello lo stringe fino a farlo sciogliere perché non vuole fare i conti con la realtà, non vuole fare i conti con chi lo chiama in gioco e lo mette in gioco.

Ecco, dentro la mia esperienza personale, cioè dentro i miei anni universitari e dentro le occasioni di amicizia riproposte in tante circostanze della nostra storia comune e di appartenenza al nostro movimento, per me Luigino è questo, è il paradigma, il paradigma di come si possa essere antitetici al nome del niente.

Nel nome del niente è forse il nome dell’opera sua più conosciuta. Quel momento della storia è stato un momento del tutto peculiare per la storia di tanti di noi perché noi semplicemente eravamo sballottati in mezzo a qualcosa che di noi era parecchio più grande: il fenomeno carsico del terrorismo degli anni Settanta, e poi la mitologia, diciamo, arrembante di ciò che a quella condizione storica amara si è sostituito e cioè la Milano degli anni da bere, e poi ancora il declino di un modello politico e sociale attraverso il venir meno di criteri elementari come quello della giustizia, che ha proprio la capacità di dare a ognuno il suo.

Tutto questo tempo della storia Luigino l’ha affrontato lancia in resta non come un novello Don Chisciotte, ma come un uomo che sa che la certezza è il fondamento della speranza e la speranza non è l’illusione di quello che avverrà il giorno dopo. È invece come stare sulla riva del mare e c’è il tuo amico, il tuo migliore amico, c’è Paolo, che io ho conosciuto qui, ma Paolo quel giorno decide di fare un bagno e di allontanarsi a grandi bracciate nella fredda baia di Mugoni (nei pressi di Alghero), che tanto ci è stata cara in questi anni. Bene, bracciata dopo bracciata io lo vedo che va in difficoltà e in sofferenza e che vorrebbe aiuto, vorrebbe essere aiutato. Ci sono io sulla spiaggia, ma se al mio posto ci fosse Mark Spitz – parlo per i sessantenni –, l’indimenticato leader delle olimpiadi di Monaco, dove ha conquistato un profluvio di medaglie d’oro, la sua speranza avrebbe maggiori ragioni, perché si fonderebbe su elementi di ragione.

Ebbene questo è quello che Luigino ha portato con la sua prosa, con la sua prosa a volte avvitata, ma avvitata, capitemi, proprio a testimoniare il ruolo della vite, cioè la capacità di arrivare a mettere le cose a posto, avvitata in un modo tale che si radicassero esperienze originali e una promessa buona del futuro.

E infatti io non vorrei tanto parlarvi di quello che abbiamo vissuto insieme (ma a qualcosa ho fatto cenno), vi vorrei dire con molta più semplicità che ieri è successa una cosa brutta e dolorosa: è stato ferito, e gravemente, a New York, Salman Rushdie. È uno scrittore, un grande intellettuale, un uomo che porta con sé dal 1989 lo stigma della fatwa che i movimenti fondamentalisti che si rifanno all’ambito sciita dell’ayatollah Khomeini proclamano da quasi 40 anni perché lui muoia perché ha maledetto il nome del Profeta. Quale sarebbe la nostra lettura se Luigino potesse introdurci alla comprensione di quello che accade oggi? Chi di voi ha fatto caso a questo fatto? E quante volte ci è capitato che gli scritti da lui fatti ci sorprendessero perché additavano alla nostra attenzione qualcosa di cui non ci saremmo mai accorti?

È citata in quel libro la vicenda di Ian Paisley, leader dei sovranisti, potremmo chiamarlo, dei lealisti britannici nell’Irlanda del Nord, l’uomo che più di ogni altro nel nome di Dio ha combattuto i cattolici irlandesi. Già tutto questo ci pone in una posizione di irrigidimento. Come ha fatto Luigino a incontrarlo? Come ha fatto Luigino a porsi in una posizione simpatetica con uno così? E come ha fatto a porsi in una posizione simpatetica con Mario Tuti? E come ha fatto a porsi in una posizione simpatetica con Adriano Sofri? Io non ve lo voglio spiegare, ve lo so semplicemente raccontare perché davanti ai miei occhi questo è avvenuto e credo che questo sì sia una Grazia, quella Grazia imprescindibile che passa attraverso il giudizio ultimo della storia che io ho sentito riecheggiare quando giovanissimo ho ascoltato, nel Natale del 1981 mentre ero in Polonia, un grande filosofo e un prete di grande fede, Józef Tischner. Nella omelia durante la messa di Natale, concluse con queste parole: «Dio nasce e il potere trema».

Ecco, credo che fosse questo il modo di Luigino di porsi di fronte alla fede e di capire la fede e di esserne percosso. «Dio nasce, il potere trema», per cui il suo mettersi in relazione con Dio, la sua teologia politica prevedeva la sfida con il potere, prevedeva in ogni circostanza che tutte le propaggini e le dimensioni del potere fossero interrogate, fossero acuite perché entravano in relazione con Qualcuno di più grande, di più vero, di più bello e di più giusto.

«Idem ipse homo est qui percepiti se intelligente et sentire, sentire autem non est sine corpore». L’Uomo è uno, dice Tommaso, l’uomo è uno, è lo stesso che bestemmia, che uccide e che prega, è lo stesso che ama e che disprezza, è lo stesso che inganna e che esercita il magistero supremo di una giustizia vera, questo è l’uomo. E Luigino è stato l’uomo di fronte a questi uomini, è stata verità nel dialogo con tutte le sfaccettature delle dimensioni della realtà per poter alla fine essere eco di quella appartenenza che sentiva la cosa più vera della propria vita, per cui quando lui diceva Comunione e Liberazione non diceva quella certa circostanza della storia che ha reso possibile qualcosa che prima era percepita come integralista e che a tratti può essere apparsa insofferente verso il mondo… No! Diceva Comunione e Liberazione. Cioè il modo più bello, più vero e più giusto di amare la realtà.

Grazie.

Exit mobile version