Guai a noi se insisteremo a inseguire il mito del “modello cinese”

Interessante commento dello Spectator sulla "seconda Guerra fredda" tra l'Occidente e la Cina. E sul fatto che «la perderemo se continueremo a copiare Pechino» (vedi alla voce emergenza Covid)

Xi Jinping proiettato su maxi schermo a Pechino durante il Congresso del Partito comunista, 11 marzo 2021 (foto Ansa)

«Un conto è competere con la Cina. Io credo fermamente che questo dobbiamo farlo in ogni ambito, dall’intelligenza artificiale ai vaccini contro il Covid. Ma nell’istante in cui cominciamo a copiare la Cina, ci mettiamo sulla via della perdizione». È uno dei passaggi più significativi di un lungo articolo scritto per lo Spectator da Niall Ferguson, storico e giornalista britannico che vale spesso la pena di leggere.

Come si capisce leggendo la citazione sopra riportata, Ferguson affronta un tema caldissimo di cui Tempi ha scritto più volte nell’ultimo anno (l’ultima volta proprio ieri a proposito della “censura” invocata dal Corriere della Sera sulle fake news vaccinali). Il paradosso, cioè, per cui una buona parte del mondo libero, pur consapevole del fatto che la Cina è il grande avversario sul piano politico, economico e culturale, sembra affannarsi a rincorrere più che a contrastare il sistema di Xi Jinping e compagni, tanto da spingere più di un osservatore a parlare apertamente di “modello cinese”.

Ma davvero siamo disposti a rinunciare alle nostre libertà nel nome della (presunta) efficienza del capital-comunismo? «Perché l’Occidente imita Pechino?», si domanda sgomento Ferguson fin dal titolo dell’articolo.

Guerra fredda e osmosi

Nessuno nega più ormai che sia in corso una sorta di “seconda Guerra fredda” tra Cina e Occidente, Stati Uniti in particolare, con due opposti sistemi e visioni del mondo che si fronteggiano per l’egemonia planetaria. Su entrambi i fronti si moltiplicano le pubbliche prese di posizione che confermano una ostilità conclamata. Ferguson ne elenca diverse nel suo articolo. Ma se a parole la distanza tra i due sistemi appare abissale, nei fatti Occidente e Cina sono sempre più simili, fa notare lo storico. Forse a causa di quella “osmosi di guerra” che secondo Norman Mailer – anno 1948 – avrebbe condannato i vincitori del secondo conflitto mondiale ad assimilare certi caratteri inquietanti dei fascisti sconfitti. Lo stesso fenomeno che durante la prima Guerra fredda spinse paradossalmente gli Stati Uniti a convergere su alcuni aspetti del sistema sovietico.

È vero infatti, ricorda Ferguson, che gli americani non perdono occasione per rimarcare quanto siano distanti dai cinesi. E in questo Joe Biden non è poi così diverso da Donald Trump. Ferguson cita per esempio il segretario di Stato Antony Blinken che «a marzo, durante lo scorbutico vertice di Anchorage, davanti suo opposto Yang Jiechi ha espresso le “gravi preoccupazioni” dell’amministrazione Biden riguardo alle “azioni della China nello Xinjiang, nei confronti di Hong Kong, del Tibet e sempre più di Taiwan, così come riguardo alle sue operazioni nel cyberspazio”». Tuttavia prosegue lo storico britannico, «quando si tratta di passare ai fatti, questa amministrazione a volte sembra piuttosto seguire i passi della Cina».

Il modello cinese in Occidente

Ferguson elenca alcune mosse politiche ed economiche che a suo dire esemplificano bene la tendenza americana a imitare il “modello cinese” quanto meno dal punto di vista strategico. Una è la proposta di Biden a Boris Johnson di mettere in piedi «una versione occidentale della One Belt One Road Initiative cinese», ossia della cosiddetta Nuova Via della seta. Poi c’è la quantità impressionante di miliardi di dollari impiegati da Biden in «pianificazione, pianificazione, pianificazione» dell’economia, con inevitabile aumento di peso dello Stato. Adesso la Federal Reserve, la Bank of England e la Bce sembrano intenzionate a seguire la banca centrale cinese pure sulla via della moneta digitale (Cbdc, Central Bank Digital Currency).

Ma è soprattutto a livello culturale e di organizzazione sociale che la “resa” dell’Occidente alla Cina appare più inquietante. Scrive Ferguson:

«Esiste in effetti una osmosi di guerra, come osservava Mailer. Ma sembra esserci anche una osmosi di pace. E se la Cina finirà per vincere la seconda Guerra fredda, gli storici – se ne resterà qualcuno di autentico – potranno ben concludere che la sua vittoria è cominciata quando gli americani hanno deciso di imitare non solo la One Belt One Road Initiative e la Cbdc, ma la stessa Rivoluzione culturale».

Il Covid e il lockdown “alla cinese”

L’esempio più macroscopico di questa imitazione della Cina è ovviamente il modo acritico con cui Europa e Stati Uniti hanno fatto propria la (discutibilissima) risposta di Pechino alla pandemia Covid. È a questo proposito che si è parlato apertamente, anche in Italia, di “modello cinese”. Ancora Ferguson:

«Prendete il modo in cui molti paesi occidentali un anno fa hanno concluso erroneamente che i rigidi lockdown in stile cinese fossere il modo giusto di affrontare il Covid, non realizzando che nessuna società libera poteva tollerare restrizioni draconiane come quelle imposte su tutta la Cina dalla fine di gennaio dell’anno scorso, che facevano affidamento sulla vasta rete di membri del Partito comunista affinché sorvegliassero in tutti i quartieri sul comportamento dei cittadini.

Neil Ferguson, epidemiologo dell’Imperial College che ha avuto un peso sulla decisione del Regno Unito di proclamare il lockdown, è stato piuttosto esplicito riguardo alla sua fonte di ispirazione. “Se la Cina non lo avesse fatto, l’anno sarebbe stato molto diverso”, ha ammesso in un’intervista a dicembre. “‘È uno Stato comunista a partito unico’, dicevamo. ‘Non potremo mai passarla liscia in Europa’, pensavamo. Poi l’Italia lo ha fatto. E abbiamo capito che potevamo”».

Verso l’impero 2.0

Lo stesso controverso passaporto vaccinale rischia chiaramente secondo Ferguson di «trasformarsi nella carta d’identità digitale che la Cina ha iniziato a usare nel 2018» come ennesimo strumento di sorveglianza della popolazione.

«Se dubitate del fatto che la Cina stia cercando di avere il sopravvento sull’impero 1.0, la versione liberale anglo-americana, e di trasformarlo in un impero 2.0, basato su un modello esplicitamente illiberale, significa che non prestate attenzione a tutti i modi in cui questa strategia è portata avanti. La Cina è riuscita a diventare il workshop del mondo, come era un tempo l’Occidente. Ha la sua versione della Weltpolitik tedesca in forma di One Bel One Road Initiative. Usa il prezzo di accesso al suo mercato per esercitare pressione sulle imprese americane affinché si pieghino alla linea di Pechino. Conduce “operazioni di influenzamento” in tutto l’Occidente, compresi gli Stati Uniti. E, naturalmente, aumenta incessantemente la sua capacità militare in tutti i campi, dalla potenza navale allo spazio e al cyberspazio. La differenza chiave tra Occidente e Cina è che Xi Jinping e i suoi consiglieri sono abbastanza coscienti del loro rifiuto strategico di imitare l’Occidente».

Un totalitarismo politicamente corretto

Tutte cose di cui Tempi si è ampiamente occupato. Comunque, l’ambito dove il “modello cinese” è applicato con maggior zelo e completezza è sicuramente quello culturale, conclude Ferguson. E qui lo storico torna su uno dei suoi argomenti preferiti: l’imposizione del “wokeism”, quella «ideologia illiberale» politicamente corretta e militante che «ha avuto origine nei campus d’élite ma è ora prevalente ovunque, dalle scuole pubbliche della California fino alla Cia».

Scrive lo studioso britannico:

«Io non sono pessimista, perché credo che le idee “woke” siano profondamente impopolari tra l’elettorato e che l’adozione da parte dei democratici di slogan come “antirazzismo” e “diversità, equità e inclusione” alla fine gli si ritorceranno contro, quando alla gente sarà chiaro che cosa essi significhino nella pratica. Tuttavia, comincio a capire meglio perché le teorie sulla convergenza [tra nemici, ndt] facciano presa in tempi di conflitti tra superpotenze.

C’è una sorta di totalitarismo a bassa intensità oggi in molte istituzioni – dalle università d’élite ai giornali, alle case editrici, alle società tecnologiche – che dimostra che pratiche come la delazione, la denuncia e la diffamazione possono tutte fiorire anche in assenza di una dittatura di un partito unico. E si scopre che non c’è bisogno di un Partito comunista al potere per avere la censura di Internet: basta lasciarla ai colossi della tecnologia, che adesso hanno il potere di cancellare il presidente degli Stati Uniti, se vogliono».

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