L’ecoansia è un trauma e beato chi ce l’ha

Vietato sminuire o tenere a bada la paura dell’apocalisse climatica: la sofferenza è prova di consapevolezza e dei danni causati dall’uomo. Al fondo dei consigli degli esperti non siamo che questo: il male della natura

La nuova grammatica della catastrofe funziona, adesso si sprecano i decaloghi estivi per “affrontare l’ecoansia e provare a sconfiggerla”. Questo della Stampa, versione video da 90 secondi, recita al versetto 8: «Immaginiamo futuri diversi perché solo così possiamo uscire dall’incubo dell’apocalisse». Nella versione estesa, scritta con l’aiuto dell’ecoterapista Matteo Innocenti che spiega cosa è “l’ecoansia”, cosa “l’ansia per il cambiamento climatico”, cosa “l’eco-panico” e cosa “l’eco-paralisi”, si ricorda anche che «per alcuni l’ecoansia è un privilegio: chi vive in zone più vulnerabili del mondo non ha tempo di preoccuparsi, ma deve solo salvarsi» e che «la natura non fa male. Siamo noi che facciamo male a lei».

L’ecoansia è un privilegio, un trauma, ma peggio non averla

Poi ci sono le esperte di Repubblica, la psicologa Virginia Martelli, profetessa dell’«ecofobia» tra i 18/20anni, che dice vietato «negare il problema o peggio sminuirlo», «in tutti i casi di disturbo da stress post traumatico è la cosa peggiore che si può fare», «la preoccupazione per il pianeta dipende da fatti purtroppo molto reali» (li paragona a un lutto, «un dato di realtà», ndr), «l’impotenza è il sentimento tipico del trauma, quello che si manifesta in seguito a un abuso sessuale, a una violenza fisica, un sentimento analogo a quello che si riscontra nei reduci di guerra».

E c’è l’ecopsicologa Marcella Danon, secondo la quale «dovremmo preoccuparci molto di più di chi non prova l’ansia davanti alla crisi climatica e ambientale perché non si rende conto del problema e dunque non attiva soluzioni». Di più: tenere a bada la paura chiude «il rubinetto delle emozioni» e porta alla depressione. Di più: secondo il Manifesto «il nostro timore del disastro ambientale è sano e necessario. È molto preoccupante che in tanti non lo avvertono, rifugiandosi nel diniego o in un ottimismo superficiale. Sarebbe auspicabile che esso evolvesse in senso “tragico”, che producesse phobos e eleos: il primo di questi sentimenti è la profonda inquietudine, prossima al terrore, che sconvolge il nostro mondo interno, attivando in noi una consapevolezza non eludibile dei nostri errori; il secondo è la compassione nei confronti della nostra umana miseria che ci aiuta a non chiuderci nel giudizio morale o nell’autocommiserazione e ci consente di rivivere l’amore nei confronti degli altri e di noi stessi».

L’ecoansia come indice di consapevolezza

È difficile evitare la conclusione che l’ecoansia sia cosa buona e virtuosa: da una parte chi ne soffre si mostra consapevole e responsabile, dall’altra la sofferenza mentale è la prova tangibile dei danni causati dal cambiamento climatico. Ed entrambe le cose servono a loro volta a rincarare la dose: o ci preoccupiamo o moriremo tutti. I giovani, neanche a dirlo, sono la “risorsa morale” che serve alla narrativa vagamente euforica sull’ecoansia ad ogni latitudine: “burnout” era il termine più in voga prima che Covid e guerra in Ucraina soffiassero il posto ai resoconti dai Meetup Climate Change americani, frequentatissimi da ragazzi paralizzati dalla paura del futuro, di abitare una terra in fiamme e in balìa dei ghiacciai che si sciolgono, terrorizzati dall’imminente estinzione di massa.

Nelle università fioccavano seminari per «affrontare il lutto ecologico», tra le no profit le “sessioni di gruppo” per supportare i tanti travolti dalla vastità della crisi ecologica, tra i terapisti si moltiplicavano gli specialisti dell’ecoansia e stress da climate change, tra i giornali i sondaggi e le interviste agli americani che non volevano avere figli perché preoccupati di “vederli nascere in un mondo apocalittico” e di “contribuire all’apocalisse” generando altri esseri umani.

California o Milano, era meglio morire da piccoli

«Da non credere, anche il Pacific Science Center sta organizzando una sessione sulla gestione dell’ecoansia», scriveva Cliff Mass, docente di Scienze dell’Atmosfera all’Università di Washington, attaccando i media che dal Guardian al New York Times fomentavano il panico in maniera “irresponsabile”. «Ho ricevuto così tante chiamate e mail da persone disperate che non riesco ad elencarle qui. Una ragazza mi disse in lacrime che sua madre era gravemente malata in California, ma non poteva raggiungerla perché aveva paura degli effetti dei cambiamenti climatici in quello stato. Un’altra mi chiamò, terribilmente terrorizzata dagli incendi scoppiati nello stato di Washington a causa del riscaldamento globale. Altri mi hanno chiesto dove dovevano scappare per sfuggire alla nostra apocalisse locale».

Era il 2019. Di pochi giorni fa è invece l’upgrade italiano su Domani: «Abbiamo meno di trent’anni e molti di noi hanno già rinunciato da tempo al sogno di costruirsi una famiglia. Dopo il nubifragio a Milano l’ho capito anch’io. In un mondo che va a fuoco, dare la vita è ormai un’idiozia», «Far entrare nuova gente in un edificio in fiamme, che sta per crollare, non è altro che procurare del dolore a chi se lo sarebbe potuto risparmiare. Non nascendo, appunto». Alla faccia di phobos e eleos.

Siamo solo carbonio, facci un decalogo

Che ci sia un problema è evidente, che abbia poco a che fare con l’apocalisse e molto col concepire la vita umana come puro carbonio e fonte di inquinamento, anche. Nell’epoca dell’«allarme ebollizione globale», in un mondo che sogna “simbiocene”, “biofilia”, “endemofilia”, “sumbiofilia” (qui il glossario dei neologismi dei filosofi della sostenibilità più cari agli ecoattivisti e ai giornali quando non intervistano gli esperti), che tra preoccuparsi o occuparsi di un problema sia di mezzo, non la lagna o la filosofia, bensì il pragmatismo lo abbiamo scritto qui e qui.

Per tutto il resto ci sarà sempre un decalogo, un esperto o un giornale pronto a puntare sull’ecoansia, ormai assurta a genere letterario, a dimostrazione che il catastrofismo apocalittico continua a danneggiare seriamente il pianeta: traumatizzando quelle stesse persone che dovrebbero “salvarlo”.

Foto Ansa

Exit mobile version