Beppe Sala emblema della crisi dei sindaci “woke” occidentali

Il sindaco di Milano Beppe Sala (foto Ansa) 

Su Startmag Walter Galbusera scrive: «L’equivoco nel nostro paese nasce dal fatto che dietro l’idea di stabilire un salario minimo si persegue in realtà l’obiettivo di aumentare almeno una parte significativa dei salari. Il fine è certo nobile e, detto per inciso, può essere utilizzato in una qualunque campagna elettorale. Naturalmente ci sarà da mettere in conto una dura competizione tra i vari partiti che terranno poco conto delle medie e ancor di meno delle differenze tra il potere d’acquisto delle diverse aree del paese, puntando a un rilancio del valore del “minimo” per apparire più vicini ai lavoratori/elettori. Ma questo, oltre ad incrementare il lavoro nero, in particolare nel Mezzogiorno, favorirebbe una sorta di deresponsabilizzazione del sindacato, assai dannosa per un soggetto collettivo che fa della contrattazione la sua principale ragion d’essere. Tanto più se accompagnata dalla tentazione di accelerare un processo di graduale statalizzazione del salario perseguito dalle crescenti richieste di fiscalizzazione non selettiva degli oneri sociali. Senza contare che un trasferimento oltre misura dell’intervento del Parlamento sulle materie contrattuali esporrebbe il paese al rischio di esproprio del ruolo di tutte le parti sociali. D’altra parte se il Parlamento, per qualsivoglia ragione, ritiene necessario aumentare le retribuzioni può agire riducendo la pressione fiscale».

Galbusera spiega come per condurre una vera e seria battaglia in difesa dei salari, bisogna distinguere le chiacchiere dalla realtà: il salario minimo ha un senso per proteggere i settori marginali del lavoro, la parte centrale delle retribuzioni, invece, in una società che vuole essere “aperta”, va difesa con la contrattazione.

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Su Huffington Post Italia Stefano Folli scrive: «Guai a sottovalutare il discorso di Giorgia Meloni al congresso della Cgil. Nel gioco di specchi della nostra politica quel momento è destinato a segnare un passaggio cruciale. Non solo rispetto alla storia della destra italiana. Non solo rispetto al sindacato (e già questo non sarebbe poco). Ma soprattutto nella vicenda recente di una sinistra, o meglio di un centrosinistra, che viene messo brutalmente di fronte a se stesso, posto nella condizione di rinnovarsi a tappe forzate, ovvero di arrendersi alla propria crisi».

Folli, pur con tanti evidenti dubbi, spera che la Schlein alla fine aiuti a maturare una posizione riformista della sinistra. L’ottimismo è un sentimento nobile sempre da condividere. Ma sarebbe opportuno che le persone di buon senso collocate a sinistra abbiano anche un’opzione “b”. Se la Schlein manterrà la linea parolaia e piazzaiola che sta oggi esprimendo, sarebbe opportuno che la parte ragionevole della sinistra cercasse su alcune questioni di interesse nazionale anche un dialogo con il governo Meloni. In qualche modo c’è arrivato persino un classico bravo trattativista in materia sindacale, ma massimalista in politica, come Maurizio Landini.

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Sulla Zuppa di Porro si scrive: «E invece con il Comune a fare ammuina per 5 lunghi anni, le società hanno deciso di trovarsi loro un terreno privato e realizzarsi il proprio stadio. Soluzione, tra l’altro, meno costosa che costruire sull’area comunale accanto all’attuale stadio Meazza, dovendo farsi carico della demolizione o della rifunzionalizzazione di San Siro. Sinceramente pensavo che Sala aspettasse la riconferma elettorale per decidere. Invece… Pur essendo stato confermato nel 2021 col doppio dei voti del centrodestra ha continuato ad aver paura dei veti dei verdi e a traccheggiare. Potrebbe usare investimenti privati per 1,2 miliardi e riqualificare un intero quartiere ma teme di essere accusato di speculazione e così preferisce lasciar perdere questa opportunità. Nemmeno però ha avanzato un piano alternativo per ammodernare il vecchio stadio. La vicenda è una perfetta metafora della Milano di Beppe Sala».

Il New York Times, citando casi a Manhattan e dintorni, in California e a Chicago, da un po’ di tempo mette in luce i limiti delle amministrazioni “woke” delle grandi città americane. L’enfasi ideologizzante che prevale sulla qualità amministrativa sta mettendo in crisi i santuari della politica liberal a stelle e strisce. In questo senso Beppe Sala che non sa trovare una soluzione per gli stadi e che non sa valutare la violenza che cresce nella sua città, che invece di trovare un’alleanza tra ambiente e auto combatte un mezzo di trasporto insostituibile nel medio periodo, che non si cura di quella pratica schiavistica che è l’affitto dell’utero nonché quella di trafficare “carne umana” per il Mediterraneo, che non è informato dell’aumento del caro vita che colpisce i suoi, per così dire, “amministrati”, che impiega anni per risolvere i problemi infrastrutturali che riguardano il luogo che dovrebbe “civilmente servire”, insomma il sindaco più “insaputello” d’Italia potrebbe dire di essere un buon esempio di quella che il New York Times definisce la crisi degli amministratori “woke” delle metropoli occidentali.

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Sul Sussidiario Leonardo Tirabassi scrive: «La guerra in Ucraina per la Cina rappresenta una minaccia ed una opportunità. Minaccia da un punto di vista economico, perché il conflitto ha bloccato il corridoio terrestre della Via della Seta, per intenderci la ferrovia che avrebbe dovuto connettere Cina, Russia, Ucraina, Bielorussia e Polonia. Minaccia, perché comunque l’invasione russa mette in discussione il principio cardine – l’inviolabilità dei confini – del modo di intendere i rapporti tra Stati da parte di Pechino. Minaccia, perché decisione assolutamente grave presa da altri. Allo stesso tempo, la guerra è per i cinesi una grossa opportunità. Innanzitutto, tiene gli americani impegnati con le questioni europee, e se non riesce a distrarli completamente dal quadrante indo-pacifico, li costringe comunque a dividere risorse e attenzioni. In secondo luogo, getta una Russia indebolita sempre più bisognosa di supporto economico, militare e politico nelle braccia di una Cina che non le è mai stata amica né vicina, che ha sempre visto prima la Russia zarista e in seguito l’Unione Sovietica come potenza occidentale colonialista in termini di politiche territoriali e culturali. Adesso che la Russia, come dicono gli americani, è una “stazione di benzina” dotata di armi nucleari, i cinesi possono acquistare a prezzi super vantaggiosi petrolio, gas, terre rare. Questa nuova situazione apre uno scenario geopolitico del tutto nuovo, fa diventare la Cina la potenza leader di un futuro blocco russo-asiatico intorno a cui ruotano satelliti centro-asiatici e nuove potenze regionali, dalla Turchia all’Iran, e – perché no? – anche la difficile e autonoma India».

Con sapienza Tirabassi mette in evidenza le chance e i problemi di Pechino di fronte all’aggressione russa all’Ucraina. Le sue riflessioni al fondo dimostrano che, con buona pace di Francis Fukuyama, non solo non è finita la “storia”, ma anche che quelli che prevedevano la fine della “politica” sostituita da mercati e amministrazioni neutre dell’ordine mondiale, non avevano concretamente analizzato la realtà effettuale delle relazioni internazionali contemporanee.

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