Cinquant’anni di profezie sull’apocalisse climatica. Tanti auguri allarmismo inutile

Da mezzo secolo ci avvertono che il mondo finirà domani. La Cop26 era l’ennesima «ultima chance». Quando affronteremo davvero il cambiamento climatico?

Ambientalisti in protesta a Glasgow in occasione della Conferenza Onu sul clima (Cop26), 11 november 2021 (foto Ansa)

Com’era prevedibile, la recente conferenza Onu sul clima a Glasgow è stata bollata come la nostra «ultima chance» per contrastare la «catastrofe climatica» e «salvare l’umanità». Come molti altri, l’inviato degli Stati Uniti per il clima John Kerry ci ha avvertito che abbiamo soltanto nove anni ancora per evitare gran parte del «catastrofico» riscaldamento globale.

Quasi tutte le conferenze sul clima sono state bollate come l’ultima chance. Fissare scadenze artificiali per attirare l’attenzione è una delle tattiche ambientaliste più comuni. Per tutto l’ultimo mezzo secolo ci è stato detto in continuazione che il tempo stava per scadere. Questo messaggio è clamorosamente sbagliato e produce solo panico e politiche scadenti.

Due anni fa, il principe Carlo del Regno Unito ha annunciato che ci restavano ancora appena 18 mesi per risolvere il cambiamento climatico. E quello non è stato il suo primo tentativo di fissare scadenze. Dieci anni prima, disse davanti a una platea che aveva «calcolato che abbiamo solo 96 mesi ancora per salvare il mondo».

Nel 2004, uno dei più importanti giornali britannici ci informò che senza un’iniziativa drastica il cambiamento climatico avrebbe distrutto la civiltà entro il 2020. Sosteneva che le principali città europee sarebbero affondate nelle acque dei mari, che la Gran Bretagna sarebbe precipitata in un clima “siberiano” e che mega inondazioni e carestie avrebbero causato rivolte diffuse e la guerra nucleare.

Nel 1989, il capo del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite dichiarò che avevamo soltanto tre anni per «vincere – o perdere – la lotta per il clima». Nel 1982, l’Onu andava presagendo una «devastazione» planetaria «completa e irreversibile quanto qualunque olocausto nucleare» entro l’anno 2000. Durante il primo vertice Onu sull’ambiente nel 1972 a Stoccolma, l’organizzatore e successivamente primo direttore del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite avvertì che il mondo aveva solo 10 anni per evitare la catastrofe.

Nel 1972 il mondo era anche scosso dal primo grande allarme ambientale globale, il cosiddetto Rapporto sui limiti dello sviluppo. Gli autori vi prevedevano che la maggior parte delle risorse naturali si sarebbero esaurite nel giro di pochi decenni, mentre l’inquinamento avrebbe sopraffatto l’umanità. All’epoca, il futuro veniva descritto dalla rivista Time come un mondo desolato con sopravvissuti malridotti che avrebbero coltivato le aiuole autostradali nella speranza di raccogliere il necessario per la sussistenza. Il magazine Life si aspettava che «gli abitanti delle aree urbane dovranno indossare maschere a gas per sopravvivere all’inquinamento dell’aria» entro la metà degli anni Ottanta.

Avevano tutti torto perché sottovalutavano la più grande fra tutte le risorse: l’ingegno umano. Noi non consumiamo soltanto le risorse; noi innoviamo trovando modi più intelligenti di rendere disponibili più risorse. Nello stesso tempo, la tecnologia risolve molti dei problemi di inquinamento più persistenti, come ha fatto il catalizzatore. È per questo che nei paesi ricchi l’inquinamento dell’aria diminuisce da decenni.

Cionondimeno, dopo cinquant’anni di predizioni sbalorditivamente sbagliate, attivisti del clima, giornalisti e politici ancora spacciano con successo un’apocalisse imminente ignorando l’adattamento umano. Titoli di giornale che dicono che l’innalzamento del livello dei mari potrebbe fare annegare 187 milioni di persone entro la fine del secolo sono insensati. Immaginano che centinaia di milioni di persone se ne starebbero immobili mentre le acque lambiscono loro i polpacci, poi i fianchi, il petto, la bocca. Sul serio, si basano sull’assunto assurdo che nessuna nazione costruirà difese contro l’acqua del mare. Nel mondo reale, invece, nazioni sempre più ricche si adatteranno e proteggeranno sempre meglio i propri cittadini, cosa che comporterà una continua diminuzione delle alluvioni, nello stesso tempo spendendo frazioni sorprendentemente sempre più piccole del proprio Pil per coprire i costi delle misure difensive.

Analogamente, quando gli attivisti vi dicono che a causa del cambiamento climatico i bambini di oggi assisteranno al doppio degli incendi attuali, fanno affidamento su modelli computerizzati che includono solo le temperature e ignorano gli esseri umani. Le società reali invece si adattano e riducono gli incendi perché gli incendi costano. Ecco il motivo per cui le statistiche sugli incendi a livello globale rilevano una riduzione delle aree consumate dal fuoco nel corso degli ultimi 120 anni, ed ecco perché il futuro, grazie all’adattamento, vedrà meno incendi, non di più.

Questi allarmi indimostrati hanno conseguenze sul mondo reale. Uno studio accademico su giovani di tutto il mondo indica che la maggior parte di loro soffre di “eco-ansia”. Due terzi sono impauriti e tristi, mentre quasi la metà di loro dice che le loro preoccupazioni hanno un impatto sulle loro vite quotidiane. È irresponsabile spaventare i giovani quando il Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico ritiene che, anche se non facessimo niente per mitigare il cambiamento climatico, l’impatto previsto per la fine del secolo sarebbe un rallentamento dell’aumento del reddito medio dal 450 al 430 per cento. Un problema, certo, ma non esattamente la fine del mondo.

Il panico inoltre è un terribile consigliere. Invece di affrontare il cambiamento climatico, i politici attivisti nel mondo ricco cincischiano, distribuendo sussidi a pioggia per progetti di pura immagine come le auto elettriche, il solare e l’eolico, peccato che secondo l’Onu non è possibile nemmeno identificare un qualche effetto concreto sulle emissioni prodotto dall’ultimo decennio di leggi a tutela del clima. Nonostante i loro grandi proclami sul salvare il mondo, il 78 per cento dell’energia dei paesi ricchi è prodotta ancora da combustibili fossili. E come ha mostrato (per la 26esima volta) la Conferenza sul clima di Glasgow, i paesi in via di sviluppo – quelli che contano di più in termini di emissioni da qui alla fine di questo secolo – non possono permettersi di spendere a loro volta migliaia di miliardi in politiche climatiche inefficaci, quando sono impegnati a fare uscire le proprie popolazioni dalla povertà.

Cinquant’anni di panico evidentemente non hanno risolto il cambiamento climatico. Abbiamo bisogno di un approccio più intelligente che non sia terrorizzare chiunque e che si concentri su soluzioni realistiche come adattamento e innovazione. L’adattamento non cancellerà per intero il costo del cambiamento climatico, ma lo abbatterà decisamente. E finanziando l’innovazione di cui abbiamo bisogno per rendere finalmente l’energia pulita più conveniente dei combustibili fossili, potremo permettere a tutti – compresi i paesi in via di sviluppo – di diventare green in modo sostenibile.

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