La “questione giovanile” che la prossima Repubblica dovrà per forza affrontare

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Su Formiche Francesco Scisci scrive: «La Repubblica nasce sulla premessa di antifascismo, come il regno sabaudo nasceva antiborbonico».

Scisci propone un’interessante riflessione sulla nostra storia nazionale e sostiene una tesi che va considerata attentamente. Gli ex (neo) fascisti sarebbero come gli ex borbonici e dovrebbero mettersi l’anima in pace sul passato. L’unità d’Italia avrebbe chiuso definitivamente la storia del Regno delle Due Sicilie, così come la Costituzione repubblicana ha ripudiato radicalmente l’esperienza del regime fascista. Sulla necessità di accettare come base della nostra Repubblica la rottura con il passato fascista, Scisci ha completamente ragione. Forse però sottovaluta la complessità del fenomeno fascismo, che ha in Italia un rilievo diverso rispetto alla necessità di fare i conti con il regime borbonico. Franceschiello fu facilmente eliminato quando gli inglesi che lo proteggevano puntarono su Giuseppe Garibaldi e la monarchia sabauda fece un compromesso con le classi sociali che sostenevano i Borboni, scontando solo residui di rivolte popolari spesso ispirate da settori del clero. Mentre il problema della formazione di un’area politicamente e autonomamente conservatrice nel nostro Stato (che non si esaurisce certo con fascismo e neofascismo, ma a questi fenomeni politici s’intreccia) è stato sempre questione assai più articolata di quella del superamento del regime che vigeva in Meridione prima del 1861. Per alcuni versi ricorda la questione cattolica, e sul come lo Stato unitario assorbì solo dopo un lungo processo élite e masse cattoliche: in uno spazio di tempo che va dall’inizio del Novecento alla Resistenza e alla Repubblica.

Nell’ostilità ai cattolici in politica, come nella difficoltà di costruire un movimento politico conservatore autonomo, si legge anche la tendenza di una parte rilevante delle nostre élite (innanzi tutto economiche) a restringere le basi dello Stato costruendo un sistema di democrazia limitata e configurata da un potere politico tendenzialmente poco contendibile. Così è avvenuto nell’era giolittiana con un certo orientamento anticlericale di settori delle classi dirigenti, così oggi nell’ostilità alla formazione di un partito conservatore che di fatto preparerebbe, poi, di riflesso, la nascita di un partito classicamente socialdemocratico pronto all’alternanza nella guida dello Stato. Per qualche verso la “questione fascista”, in questo senso, è legata anche allo svolgimento di questi processi e dunque chi auspica un allargamento delle “basi” del nostro Stato dovrebbe impegnarsi in riflessioni politiche non sbrigative.

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Su L’Occidentale Bernardino Ferrero scrive: «Ieri la Corte di cassazione ha assolto in via definitiva gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, nel processo sulla “trattativa Stato-mafia”. Per “non aver commesso il fatto”. Assolto anche l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Finisce così una odissea giudiziaria durata oltre 20 anni, con la Suprema corte che accoglie in pieno le tesi degli imputati. “È stato restituito l’onore ai Ros,” il commento dell’ex generale dei carabinieri Mori».

La fine del processo sulla trattativa mafia-Stato così come, qualche mese prima, quella del processo sull’Eni, rappresenta la sconfitta di quel partito di pubblici ministeri che forzando il diritto volevano disgregare due pilastri del nostro sistema economico-istituzionale, l’impresa costruita da Enrico Mattei e il ruolo nazionale fondamentale dell’Arma dei carabinieri. Il prevalere nella magistratura giudicante della razionalità giuridica rispetto alla solidarietà con pm, che, come ha fatto e poi bene spiegato Luca Palamara, attraverso il Csm condizionano i giudici, dà una chance all’Italia per attuare quella svolta politica e istituzionale che gli avvenimenti del post 1992 avevano reso urgente già trent’anni fa. Non sarà comunque una passeggiata e servirà molta intelligenza politica per gestirla.

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Su Startmag Alberto Zanardi scrive: «Un punto di caduta di tutta l’attuazione dell’autonomia differenziata sarà comunque un cambiamento profondo nella struttura delle entrate nei bilanci regionali: se le regioni differenziate dovessero assumere funzioni aggiuntive rilevanti dal punto di vista delle risorse coinvolte (è ancora il caso della scuola), il loro finanziamento, che deve realizzarsi necessariamente mediante compartecipazioni, spingerebbe sempre più i bilanci regionali verso uno stato di “finanza derivata”, dove i tributi propri avrebbero un peso sempre più marginale. Proprio il contrario del federalismo fiscale, che vede nell’autonomia tributaria un elemento fondamentale di responsabilizzazione dei governi decentrati. Una ragione, anche questa, per limitare la portata dell’autonomia differenziata a quel carattere di variazione al margine che la Costituzione intende assegnarle».

Un altro nodo politico, quello del regionalismo/autonomia del sistema statuale nazionale, sta arrivando al pettine. Anche in questo caso serve una riflessione culturale e non solo politica, e tanto meno puramente tecnica.

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Su First online si scrive: «Sono due milioni i giovani che negli ultimi dieci anni hanno deciso di abbandonare l’Italia. Al netto del numero dei rimpatriati, è una grossa perdita per il paese. Da queste fondamenta nasce la ricerca della Fondazione Nord-Est insieme alla Regione Veneto che indagherà sulla diaspora giovanile. Secondo le prime stime della Fondazione, in termini di capitale umano, la perdita si aggira attorno a 600 miliardi di euro, se si contabilizzano sia le spese delle famiglie dal concepimento all’espatrio sia quelle pubbliche in istruzione e assistenza (dalla sanità ai trasporti a costi sussidiati). Un’emorragia umana, sociale ed economica, che rende più traballante la sostenibilità del debito pubblico italiano».

La questione giovanile e quelle connesse dell’educazione/formazione e dell’occupazione, costituiscono un’ennesima questione rilevante della nostra storia repubblicana. La cesura del ’92, affidando alla magistratura invece che alla politica la soluzione di questioni di fondo della guida della nazione, ha provocato tra l’altro una rottura nella trasmissione del patrimonio culturale politico tra generazioni. La politica della Prima Repubblica è stata rappresentata essenzialmente come una storia corrotta, e chi si è affacciato alla storia dopo il 1992 ha avuto difficoltà a rintracciare una narrazione alla quale collegarsi, con il risultato di una riproduzione delle élite politiche particolarmente ristretta e molto legata a motivazioni personali (spesso solo di carriera individuale) piuttosto che a movimenti vitali nella società. Anche agenzie di formazione della coscienza collettiva come i sindacati da una parte si sono concentrate essenzialmente sulle generazioni di lavoratori anziani occupati, dall’altra hanno flirtato con movimenti qualunquisti come i 5 stelle, portatori di soluzioni assistenzialistiche tipo il “reddito di cittadinanza”.

Risultato: i giovani tendono a polarizzarsi tra “neet”, quelli che non studiano, non lavorano e non si preparano a lavorare, e tendono a non occuparsi di politica, e una “generazione Erasmus” più orientata ad emigrare che a crescere professionalmente in Italia. I nuovi movimenti politici che vorranno affermarsi nella storia repubblicana del XXI secolo dovranno fare i conti con la questione giovanile che abbiamo schematicamente tentato di inquadrare, e non troveranno soluzioni se si limiteranno a scelte tecnico-economiche o demagogico-emotive. Senza un rilancio di visioni fondate su valori e speranze (e su almeno un po’ di pensiero critico) non ci sarà un risanamento dello stato delle cose attuali.

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