Iraq. Le stanze degli orrori dove vengono stuprate le donne yazide: «Alcune di noi non hanno nemmeno 13 anni»

Le testimonianze di giovani ragazze rapite dei miliziani dello Stato islamico. «Dicono che siamo di loro proprietà. Ci paragonano spesso a delle capre appena acquistate al mercato delle bestie»

Arrivano sui giornali italiani altre tragiche testimonianze delle condizioni della popolazione cristiana e yazida in Iraq. Le milizie dello Stato islamico continuano a spadroneggiare su parte del territorio infliggendo alla popolazione terribili torture. Un modo per evitarle esiste: convertirsi, ma a volte – soprattutto per quanto riguarda le donne – nemmeno questo basta. Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera, ha raccolto la testimonianza di Amira, 17 anni, yazida, che per venti giorni ha vissuto come una schiava nelle grinfie dei jihadisti:

«Gli uomini arrivano a ogni ora, notte e giorno – ha raccontato -. Talvolta soli, oppure in due o tre. Ogni volta i nostri guardiani ordinano a tutte le ragazze di scendere nella sala a piano terra. È un locale molto ampio, lussuoso, con poltrone, tappeti e tante lampade. Alcuni uomini impiegano poco tempo a scegliere. Meno di cinque minuti. Altri anche due ore. Stanno nella sala, chiacchierano, ogni tanto tornano a guardarci. Noi restiamo sedute in attesa. Quasi tutti ci prendono per la testa, ci costringono a guardarli negli occhi, vogliono che sciogliamo i capelli. Poi ci fanno girare per guardare anche da dietro. Non possiamo coprirci. I nostri carcerieri ci hanno preso gli scialli e i veli perché qualcuna ha provato a usarli per impiccarsi. Quando scelgono una donna la prendono per la mano. Quasi tutte gridano, implorano di restare, di essere uccise piuttosto. Non c’è troppa violenza, due guardiani spintonano quelle che resistono di più, le scortano alla porta. Loro piangono, quasi sempre piangono… Poi è finita. Tutte quelle che sono state prese non sono più tornate. Dicono che alcune sono state portate in Siria, date in spose ai guerriglieri. Ma io non so. So solo che non sono tutti guerriglieri quelli che vengono a prenderci. Alcuni ci vogliono come seconde o terze mogli. Ci sono uomini vecchi, con i denti gialli. Mi fanno schifo. Ho visto uomini di oltre sessant’anni prendere ragazze di diciassette. Non so quanto pagano, non so neppure se pagano. Io penso che ci comprino, perché me lo hanno detto qui a Dohuq, dopo che sono scappata. Ma quando ero prigioniera non sapevo che ci vendessero. L’unica cosa che ci dicevano tutto il tempo era che dovevamo convertirci all’Islam. Che era una cosa giusta, naturale. Se lo avessimo fatto spontaneamente, tutto sarebbe stato più facile per noi. Saremmo diventate spose di arabi musulmani e state benissimo».

La giovane racconta che altre cinquanta donne sarebbero ancora prigioniere. E giungono notizie di un centinaio di bambini rinchiusi in un orfanotrofio di Mosul: «Tutti quelli sopra ai sette anni venivano separati dalle madri», racconta Amira, che prosegue:

«Ci hanno caricati sulle auto e portati al villaggio di Sibae. Ci hanno derubato di tutto. Continuavano a gridare che dovevamo convertirci. Gli uomini sono stati separati subito, oltre quaranta. Penso li abbiano uccisi poco dopo attorno al villaggio. Noi donne siamo state portate alla cittadina di Sinjar e chiuse nella stazione di polizia. Qui c’erano tantissime altre donne, forse 800 ed è avvenuta una prima selezione. Soprattutto separavano le vergini dalle sposate, solo i bambini molto piccoli potevano stare con le mamme. Nel carcere eravamo forse 1.500. Nella mia cella ne ho contate sino a 150. È stato allora che alcune sono state portate via una per una. Ma la nostra condizione di schiave da vendere è diventata evidente nella casa lussuosa a Mosul. All’inizio eravamo circa 200 tra donne e ragazze giovani. Almeno la metà è stata venduta nelle prime 24 ore. Poi ci sono stata per almeno una settimana. Le nostre guardie sembravano un gruppo speciale: tutti turcomanni sunniti iracheni. Non ho visto stranieri. Hanno portato una dottoressa a visitarci. È stata l’unica donna che ho visto con loro. Ha effettuato un controllo ginecologico, più accurato alle incinte e le sposate».

Su Repubblica, l’inviato Pietro Del Re ha pubblicato il colloquio telefonico avuto con un altra ragazza, Mayat (nome di fantasia), la quale ha narrato gli orrori che è stata costretta a subire dai terroristi. Mayat parla mentre è prigioniera: «I primi giorni – racconta -, quando ci trovavano con il cellulare in mano ce lo sequestravano immediatamente. Poi però i nostri carcerieri hanno cambiato strategia e per ferirci ulteriormente ci dicono di raccontare nei dettagli ai nostri genitori quello che ci fanno. Ridono di noi perché si credono invincibili, perché si sentono dei superuomini. Ma sono soltanto persone senza cuore».
La ragazzina parla di abusi inflitti a una quarantina di donne: «Non risparmiano neanche quelle che hanno un figlio piccolo con loro. Né salvano le bambine: alcune di noi non hanno compiuto neanche 13 anni. Sono quelle che reagiscono peggio a questo schifo. Ce ne sono alcune che hanno smesso di parlare. Una s’è strappata i capelli e l’hanno portata via».

Le violenze avvengono in tre stanze («le stanze degli orrori», le chiama Mayat), anche tre volte al giorno:

«Ci trattano come se fossimo le loro schiave. Veniamo date in pasto a uomini sempre diversi. Alcuni arrivano addirittura dalla Siria. Ci minacciano e ci picchiano quando tentiamo di resistere. Spesso vorrei che mi picchiassero abbastanza forte da uccidermi. Ma sono dei vigliacchi anche in questo: nessuno ha il coraggio di mettere fine al nostro supplizio». «Vorrei morire subito. All’inizio chiedevamo ai nostri carcerieri che ci uccidessero, che ci sparassero. Ma siamo troppe preziose per loro. Alcune di noi hanno provato a impiccarsi, ma nessuna c’è ancora riuscita».

I miliziani «ci ripetono in continuazione che siamo donne “infedeli”, perché non musulmane, e che siamo di loro proprietà come un bottino di guerra. Ci paragonano spesso a delle capre appena acquistate al mercato delle bestie. (…) Vorrei solo che gli americani si sbrighino a farli fuori tutti, o che mi centrino con una loro bomba, perché io non so quanto resisterò. Hanno già ucciso il mio corpo. Stanno uccidendo anche la mia anima».

Sempre sul Corriere, oggi appaiono anche le testimonianze di profughi cristiani, fuggiti dinanzi all’avanzata dello Stato islamico. «Meglio morire che convertirci», raccontano. «Per un mese ci hanno provato. Ogni giorno venivano a dirci che dovevamo diventare musulmani. Una mattina gli abbiamo detto che forse era meglio se loro si battezzavano. Ma ci hanno picchiato più forte».

«La prima settimana dopo il loro arrivo a Batnaia, i jihadisti ci hanno lasciato in pace. Non c’erano minacce da parte loro. Anzi, sono venuti a portarci cibo, acqua. Il nostro villaggio conta circa 3.000 abitanti. Eravamo rimasti in una quarantina. E loro dicevano che dovevamo telefonare ai nostri cari per convincerli a tornare. Poi, però le cose sono rapidamente peggiorate. Hanno cominciato ad insistere che dovevamo convertirci. Tutti siamo stati ripetutamente picchiati. I più giovani in modo prolungato, continuo. Tra i jihadisti ci sono volontari arrivati dal Sudan, dal Qatar, tanti sauditi, ma anche siriani, libanesi, ceceni, afghani, pakistani. Però il più cattivo è un iracheno sulla cinquantina che si fa chiamare Abu Yakin. Lui mandava i suoi uomini a picchiarci. Ci minacciava. E lui ha ordinato che venissero spezzate le croci in chiesa, ha voluto che le statue della Madonna e del Cristo venissero decapitate e prese di mira con i Kalashnikov».

Ma non vogliono convertirsi.

«Non è tanto la formuletta di adesione all’Islam che vale. Se fosse solo quello, si potrebbe anche fare. Poi ti confessi e finisce tutto, torni cristiano. Il fatto è che i jihadisti ti chiedono di provare la tua nuova fede. Esigono che il neo-convertito vada a combattere con loro, partecipi alle operazioni in prima linea».

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