Il fallimento annunciato della Cop26 e l’eterno ritorno dell’identico

La conferenza sul clima di Glasgow finisce come previsto: tante promesse, la resistenza di India e Cina sul carbone, vaghi impegni a «fare di più». È arrivato il momento di aggiornare l'agenda catastrofista

Alok Sharma, presidente della Cop26, applaudito durante la riunione finale della conferenza sul clima di Glasgow (foto Ansa)

Alla Cop26 di Glasgow, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite iniziata due settimane fa al grido di «non c’è più tempo» per salvare il pianeta dal riscaldamento globale si è assistito all’ennesimo eterno ritorno dell’identico: molte parole, molte promesse, molto circo, solito accordo insufficiente.

Non è bastata Greta Thunberg

«Accordo dimezzato», «Epilogo drammatico», «accordo al ribasso», «fallimento», «crac annunciato». I titoli dei giornali che per quindici giorni hanno finto che in Scozia sarebbe successo davvero qualcosa sono gli stessi che leggiamo da trent’anni dopo ogni Cop. Il fatto è che queste riunioni di esperti, politici e attivisti sti trascinano sempre più stancamente da un’edizione all’altra. Non è bastata Greta Thunberg – fenomeno nato, costruito e cresciuto negli ultimi due anni da adulti che volevano fare credere di ascoltare le istanze dei giovani preoccupati per il futuro della Terra – né il ritorno in pista dell’icona ipocrita per eccellenza sul clima, Barack Obama, per dare spinta a negoziati che erano segnati dal no di Cina e India fin dall’inizio.

Il copione è quello già visto: le lacrime del presidente di turno, le mani nei capelli dei negoziatori, le proteste degli attivisti, le rassicurazioni dei politici che garantiscono che sì, si poteva fare di più ma qualcosa è stato fatto. India, Cina, Sudafrica, Bolivia e Arabia Saudita hanno detto no alla “rinuncia” all’utilizzo del carbone: sarà “diminuzione”, ma in tempi abbastanza lunghi per non doverne rispondere a nessuno. «Si allontana l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura terrestre a 1,5 gradi», ripetono i delegati colpevolmente convinti che esista un termostato terrestre da regolare, e a posto così.

Il finale della Cop26 era già scritto

I paesi in via di sviluppo non hanno intenzione di non svilupparsi, il carbone al momento è la fonte energetica meno costosa e più a disposizione per continuare a farlo, andate da un indiano a dirgli che deve girare in monopattino e auto elettrica per salvare il clima e sentite cosa vi risponde. Il testo finale promette di “fare di più” e una riduzione delle emissioni inquinanti del 45 per cento rispetto a quelle del 2010 entro il 2030, un po’ poco per chi non fa che ripetere che «non c’è più tempo» o che abbiamo dieci anni al massimo e poi sarà punto di non ritorno (e lo dicono da più di trent’anni, però).

Tutto già scritto, tutto già visto, così come gli immediati rilanci di chi assicura che «il pianeta si può ancora salvare», «non ci arrendiamo», la lotta continua e «adesso bisogna fare sul serio». Un circo inutile, costoso e pure inquinante, lo show andato in scena a Glasgow. Si salvano le richieste di trovare fonti alternative alle rinnovabili, e il discorso finalmente aperto sul nucleare. Non è la crescita zero che salverà il clima – che cambia, è un problema, ma non è la fine del mondo – né i continui allarmi sull’apocalisse imminente, ma investimenti sulla tecnologia, politiche di adattamento, e uno sguardo più umano al creato. È ora di aggiornare l’agenda catastrofista.

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