Quanto costerà la fuga dal Mar Rosso infestato dagli Houthi

Sfruttando il conflitto Israele-Hamas i ribelli sciiti filo-iraniani stravolgono le rotte commerciali e minacciano di fare di Suez un cimitero. Alla task force a guida Usa «non basterà colpire i ribelli», spiega Francesco Sassi, analista energetico

Un ribelle Houthi sul ponte della Galaxy Leader, sequestrata sul Mar Rosso il mese scorso (foto Ansa)

I continui attacchi contro i convogli di navi che attraversano il Mar Rosso condotti dai ribelli sciiti filo-iraniani Houthi, che controllano il nord dello Yemen, stanno mettendo a dura prova la sicurezza e il commercio internazionale. I ribelli sciiti hanno giustificato i loro attacchi come una risposta al conflitto in corso tra Israele e il gruppo palestinese Hamas iniziato lo scorso 7 ottobre e rappresentano ora la principale e concreta minaccia a un allargamento della crisi rimasta finora confinata nell’enclave palestinese e alle aree di confine tra lo Stato ebraico e il Libano meridionale, in cui è attivo il movimento sciita Hezbollah.

Secondo quanto dichiarato dal segretario stampa del Pentagono, il maggiore Pat Ryder, dal primo attacco lanciato lo scorso 19 ottobre contro la nave porta veicoli Galaxy Leader battente bandiera panamense e di proprietà della Ray Shipping (una società in parte posseduta dall’uomo d’affari israeliano Rami Ungar), i ribelli sciiti Houthi avrebbero condotto almeno 100 attacchi contro 10 diverse navi commerciali e mercantili nel Mar Rosso. Tra queste anche la petroliera norvegese Strinda, colpita l’11 dicembre da un razzo mentre stava effettuando un trasporto spot di circa 15mila tonnellate di residui e scarti della lavorazione di oli vegetali, destinato alle bioraffinerie Eni in Italia.

Le compagnie abbandonano Suez

Il rischio altissimo di venire attaccati anche con operazioni spettacolari con l’ausilio di elicotteri, come avvenuto con la Galaxy Leader (ancora nelle mani dei ribelli sciiti), o con missili e droni, ha spinto tre tra le più note compagnie di trasporto marittimo – Maersk, MSC e Hapag-Lloyd – a sospendere momentaneamente la navigazione nel Mar Rosso. Alle grandi compagnie di trasporto marittimo (shipping) si sono unite anche le compagnie petrolifere BP ed Equinor che hanno dirottato le proprie petroliere sulla rotta del Capo di Buona speranza, con conseguente allungamento dei costi e dei tempi di consegna. Solo di carburante una petroliera spende circa 300.000 dollari per fare il giro intorno all’Africa.

«BP è una compagnia molto esposta perché ha equities in Oman, contratti con il Qatar e il Qatar vede a sua volta la sua via principale di esportazione nel canale di Suez da cui esporta Gnl», spiega a Tempi Francesco Sassi, analista energetico e ricercatore di geopolitica dell’energia presso RIE, commentando il quadro della situazione nell’area per quanto riguarda in particolare il commercio di petrolio e gas diretto verso l’Europa. L’analista sottolinea le conseguenze della situazione in generale sui commerci petroliferi in cui tutti gli Stati rivieraschi sono coinvolti, «non solo perché si passa attraverso Suez, ma perché alcuni terminal per l’esportazione e l’importazione si trovano proprio sul Mar Rosso». In questo contesto, «sia l’accesso a Suez che quello allo Stretto di Bab al Mandeb diventa importantissimo» per il funzionamento di questi porti con ovvie conseguenze per tutti gli Stati rivieraschi.

Nuovi guai per l’Egitto

Il paese che rischia di più dall’eventuale prolungamento di questa situazione è sicuramente l’Egitto, la cui economia era già sotto pressione prima del conflitto tra Israele e Hamas dello scorso ottobre. Come sottolinea Sassi, il commercio attraverso il canale Suez ha consentito all’Egitto di raccogliere da metà 2022 a metà 2023 circa 10 miliardi di dollari «ed è una delle fonti più stabili dei ricavi economici» per la leadership del presidente Abdel Fattah al Sisi, riconfermato per la terza volta alla guida del paese alle elezioni avvenute il 12 dicembre. Al Sisi, sottolinea Sassi, si trova di fronte a questa situazione che si aggiunge alle conseguenze del conflitto tra Israele e Hamas sul piano dell’importazione di gas naturale.

Gli Houthi – il cui nome ufficiale è Ansar Allah (letteralmente i “Sostenitori di Dio”) – controllano dal 2014 la capitale yemenita Sana’a. Considerati un “proxy” dell’Iran e alleati del movimento sciita libanese Hezbollah, gli Houthi sono stati protagonisti di una guerra civile con le autorità riconosciute dello Yemen, sostenute dall’Arabia Saudita e da altri paesi del Golfo, durata nove anni e ufficialmente ancora non conclusa. Tra il gruppo armato e le autorità riconosciute appoggiate da Riad, che controllano il sud del paese e la città di Aden, vige solamente una tregua negoziata nell’aprile del 2022 sotto l’egida delle Nazioni Unite e che è formalmente terminata nell’ottobre dello stesso anno, ma i suoi termini sono rimasti comunque in gran parte in vigore fino ad ora anche senza un accordo formale tra le parti in conflitto.

Prosperity Guardian, la task force a guida Usa

Grazie al controllo del porto strategico di Al Hodeidah, i ribelli sciiti hanno la possibilità di lanciare attacchi contro il naviglio in ingresso dallo Stretto di Bab al Mandeb, tra lo Yemen e l’Africa nord-orientale, che conduce a nord verso il Mar Rosso e allo strategico canale di Suez da cui passa circa il 12 per cento del commercio mondiale e il 30 per cento del traffico dei container spediti via mare.

Per tentare di affrontare una situazione che rischia di essere davvero esplosiva, gli Stati Uniti hanno annunciato il 18 dicembre un’operazione di sicurezza internazionale denominata Operazione Prosperity Guardian a cui hanno partecipato Regno Unito, Bahrein, Canada, Francia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Seychelles e Spagna. Tuttavia, tale mossa, se da un lato mira a scoraggiare ulteriori attacchi e a difendere i convogli, dall’altra potrebbe esacerbare ulteriormente la crisi.

Gli Houthi «faranno del Mar Rosso un cimitero»

All’annuncio fatto dagli Usa, il ministro della Difesa del governo non riconosciuto di Sana’a, Mohamed al Atifi, ha risposto sostenendo che i ribelli sono «in possesso di munizioni e attrezzature militari che possono affondare le vostre navi da guerra, sottomarini e portaerei». In una dichiarazione all’emittente iraniana Press TV, al Atifi ha affermato che «le forze armate yemenite (in riferimento agli Houthi) trasformeranno il Mar Rosso in un cimitero della coalizione guidata dagli Stati Uniti se l’alleanza deciderà di intraprendere qualsiasi azione contro lo Yemen».

In una situazione di tale tensione, Sassi fa notare che alla task force internazionale «è dato un compito particolarmente arduo perché non basterà semplicemente colpire i ribelli Houthi che lanciano attacchi verso i convogli, ma servirà un’azione diplomatica forte». L’analista spiega che le monarchie del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, hanno molti interessi nella situazione yemenita e non hanno alcuna intenzione di «far scoppiare un nuovo conflitto nell’area». In questo contesto, «il coinvolgimento delle marine occidentali complicherebbe un quadro già drammatico in un paese in cui ci sono stati centinaia di migliaia di morti civili in una guerra che dura quasi da dieci anni».

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