«L’avanzata jihadista va frenata con ogni mezzo. Le minoranze religiose sono a rischio»

Nonostante la coalizione internazionale, lo Stato islamico è sempre più forte. «Occorre far percepire la falsità e la mostruosità di quella ideologia sanguinaria». L’ultimo appello della Chiesa orientale e di Roma

Avviso ai lettori: “Sperando contro ogni speranza”. A Milano un incontro da non perdere con il Patriarca dei Caldei Louis Sako

Un miliardo di dollari di spese militari americane e 400 air-strikes della coalizione anti-Isil dopo, lo Stato islamico è più forte che mai. Avanza imperterrito su Kobane, cittadina curdo-siriana strenuamente difesa da poche migliaia di uomini e donne dell’Ypg, le unità di autodifesa del partito Pyd che controllava la maggior parte delle aree a maggioranza curda della Siria nord-orientale prima dell’offensiva dei jihadisti. Gli attacchi aerei americani a malapena frenano gli uomini del califfato, mentre le forze armate turche osservano inerti e compiaciute dalla frontiera quella che il vicesegretario dell’Akp, il partito del presidente turco Erdogan, ha definito «non una tragedia, ma una guerra fra due gruppi terroristici». Oltre che essere sul punto di conquistare Kobane, al confine fra Siria e Turchia, i jihadisti avanzano su Aleppo, dove combattono contro formazioni di ribelli anti-Assad, e hanno conquistato quasi tutta la provincia di al Anbar in Iraq, dove i governativi resistono nella capitale regionale Ramadi. Si preparano ad attaccare Baghdad, secondo informazioni dei servizi segreti militari iracheni. Solo nel nord dell’Iraq hanno dovuto cedere alcune località curde e cristiane che avevano occupato in agosto, ma la maggior parte della piana di Ninive e le città di Mosul, Sinjar e Tal Afar restano saldamente sotto il loro controllo.

Per comprendere la gravità della situazione e i suoi risvolti morali, può essere utile notare il cambiamento di tono degli interventi del segretario di Stato della Santa Sede Pietro Parolin. All’Assemblea generale dell’Onu di fine settembre aveva detto: «La mia delegazione desidera ricordare che è sia lecito sia urgente arrestare l’aggressione attraverso l’azione multilaterale e un uso proporzionato della forza. Pur essendo il concetto di “responsabilità di proteggere” implicito nei princìpi costituzionali della Carta delle Nazioni Unite e del Diritto Umanitario, non favorisce in modo specifico il ricorso alle armi. Piuttosto, afferma la responsabilità dell’intera comunità internazionale, in spirito di solidarietà, di combattere crimini odiosi come il genocidio, la pulizia etnica e la persecuzione per motivi religiosi». Sabato scorso, di fronte all’aggravarsi della crisi, ha dichiarato all’Ansa che «la gravità della situazione» in Medio Oriente con l’offensiva dell’Isil «esige risposte altrettanto articolate e complesse», «si deve cercare di fermare in tutti i modi» l’aggressione verso le minoranze.

L’uso legittimo della forza
Il senso di urgenza si è fatto strada, quel «fermare in tutti i modi» ne è sintomo. I patriarchi e i vescovi della regione avevano espresso chiaramente la necessità di fermare con l’uso legittimo della forza l’avanzata dello Stato islamico sin dall’inizio della crisi. Lo avevano chiesto cinque patriarchi orientali cattolici e ortodossi in visita a Erbil il 21 agosto, nel pieno della crisi. Nella conferenza stampa conclusiva il patriarca siriaco cattolico Youssef III Younane aveva detto: «Non c’è nemmeno un secondo da perdere. È in gioco la nostra sopravvivenza in Mesopotamia. Le nazioni libere che aderiscono alla Carta dei diritti dell’uomo devono avere il coraggio di essere fedeli ai loro princìpi. Noi chiediamo un intervento internazionale in nostra difesa, e non certo per conquistare alcunché. Noi abbiamo il diritto di difenderci e noi chiediamo di essere difesi. La comunità internazionale lo ha ben fatto in precedenza in Kosovo, malgrado l’opposizione, all’epoca, della Russia. Per questo noi domandiamo, assieme a papa Francesco, di fare in modo che vengano rispettati i nostri diritti per un intervento militare di natura difensiva, per fronteggiare i gruppi jihadisti che ci minacciano». Il 27 agosto, riuniti a Beirut con ambasciatori di molti paesi, i vertici delle Chiese orientali (il cardinale e patriarca maronita Bechara Rai, l’armeno cattolico Nerses Bedros XIX, il siriaco cattolico Ignace Youssef III Younan, il caldeo Louis Raphael I Sako, il siriaco ortodosso Ephrem II Karim, l’armeno apostolico Aram I Kéchichian, il greco-cattolico Gregoire III Laham e il capo della Chiesa evangelica, il pastore Selim Sahiouni), ribadivano che, così riferiva Asia News, «la comunità internazionale “deve agire e sradicare” lo Stato islamico, come chiedono “le Nazioni Unite e il Consiglio di sicurezza Onu”. Inoltre la comunità internazionale e l’Unione Europea devono cooperare con il governo iracheno e le autorità del Kurdistan per liberare la piana di Ninive e assicurare un ritorno sicuro a Mosul degli sfollati». E l’8 ottobre scorso il patriarca caldeo Louis Sako lo ha ribadito ai microfoni di Euronews: «L’avanzata jihadista in Iraq va frenata con ogni mezzo, anche con l’intervento delle truppe di terra. Le minoranze religiose sono a rischio». Pochi giorni prima il vescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Warda, aveva espresso lo stesso concetto in un’intervista alla Bbc: «È strano sentire un vescovo cattolico che dice: “abbiamo bisogno di un maggiore sforzo militare”, ma è autodifesa, veramente. Io vedo il mio popolo morire, morire in un modo terribile e doloroso, dobbiamo difenderci».

Se l’indispensabilità di un intervento militare di ampia portata per rendere giustizia alle vittime degli attacchi dello Stato islamico è diventata convinzione comune col peggiorare della crisi, due punti sono però stati chiari a tutti fin dall’inizio. Il primo è che l’intervento deve avere le caratteristiche di un’azione di polizia internazionale, approvata e organizzata dalle Nazioni Unite sulla base del diritto internazionale, e non può ridursi a estemporanei bombardamenti decisi da una coalizione la cui composizione è stata decisa dagli Stati Uniti e i cui obiettivi politici di breve come di lungo termine non sono affatto chiari. Il secondo punto è che per sconfiggere il jihadismo non basta l’uso legittimo e anzi doveroso della forza: il suo sradicamento dipende più dall’educazione, dal dialogo e dalla buona formazione religiosa che dai successi militari.

La critica all’azione americana
Nel suo intervento del 30 settembre all’assemblea delle Nazioni Unite monsignor Parolin aveva chiarito che «saranno necessarie le forze combinate di diverse nazioni per garantire la difesa di cittadini disarmati. Poiché non esiste norma giuridica che giustifichi azioni di polizia unilaterali oltre i propri confini, non c’è alcun dubbio che si tratti di un ambito di competenza del Consiglio di Sicurezza». Un mese prima il nunzio Silvano Tomasi era intervenuto alla Commissione per i diritti umani dell’Onu a Ginevra dicendo fra le altre cose: «La responsabilità della protezione deve essere assunta in buona fede, nel quadro del diritto internazionale e del diritto umanitario. La società civile in generale, e in particolare le comunità religiose ed etniche, non dovrebbero diventare strumento di giochi geopolitici regionali e internazionali». Su questo punto la coincidenza di vedute coi patriarchi orientali è sempre stata piena. Essi sempre hanno chiesto un intervento di tutta la comunità internazionale e sempre hanno criticato l’azione unilaterale a guida americana sia perché inefficace, sia perché subalterna a logiche geopolitiche che la rendono inaffidabile. Basti ricordare l’intervista alla Stampa in cui il patriarca Sako definiva l’operazione della coalizione «Un gioco politico sporco. Bombardare questi jihadisti non li farà certo sparire. (…) La cosa più grave è che adesso tutti ripetono: la guerra durerà anni. Così mandano un doppio messaggio, pericolosissimo. Ai jihadisti dicono: tranquilli, avete tempo per organizzarvi con calma, trovare altri soldi, arruolare altri militanti a pagamento. Agli altri, al popolo dei rifugiati dicono: ne avrete per anni, per voi il futuro è possibile solo altrove, lontano dalle vostre case».

Una nuova educazione
In quell’intervista Sako ribadiva un punto che gli è caro: «Se si vuole davvero farla finita con i gruppi estremisti, si deve lavorare sull’educazione e sulla formazione, con programmi che davvero facciano percepire la falsità e la mostruosità di quell’ideologia sanguinaria». Lo ha ripetuto in un’intervista a Oasis: «Tutti parlano di democrazia, di riforme, di cambiamento. Ma prima di tutto ci vuole un’educazione nuova, che sradichi fin dai suoi primi germogli la mentalità del jihadista. Solo così, con una nuova educazione portata avanti dalle famiglie musulmane sulle nuove generazioni, si può pensare a un futuro per i cristiani qui».

Insieme ai patriarchi delle Chiese orientali, in agosto Sako aveva chiesto ai musulmani di fare la loro parte emettendo una fatwa (decreto religioso) contro l’Isil. Non ci può essere educazione a un islam di pace e di rispetto per le minoranze religiose se i maestri islamici della fede non prendono posizione chiaramente contro i jihadisti. Da allora, qualche progresso sulla sponda musulmana è stato fatto, ma forti ambiguità permangono. L’episodio più significativo è rappresentato dalla lettera dei 120 saggi musulmani contenente una confutazione delle pretese islamiche dell’Isil. Il testo è stato firmato da personalità autorevoli come i gran mufti di Egitto, Gerusalemme, Bulgaria, Kosovo e Malaysia e da molti docenti dell’università di Al Azhar. Il testo, che nella versione inglese è lungo 17 pagine, presenta molti contenuti positivi. Nell’indice dei paragrafi dal punto 6 al 14 si legge: «6) È vietato nell’islam uccidere gli innocenti. 7) È vietato nell’islam uccidere emissari, ambasciatori e diplomatici, perciò è vietato uccidere giornalisti e operatori umanitari. 8) Il jihad è una guerra difensiva. Non è ammessa senza giustificato motivo, giusto scopo e senza appropriate norme di condotta. 9) È vietato nell’islam dichiarare le persone “miscredenti” a meno che non si definiscano loro tali. 10) È proibito nell’islam danneggiare o maltrattare in qualunque modo i cristiani e le altre “genti del libro”. 11) È obbligatorio considerare gli yazidi “gente del libro”. 12) La reintroduzione della schiavitù è proibita nell’islam. Essa è stata abolita per consenso universale. 13) È vietato nell’islam costringere le persone a convertirsi. 14) È vietato nell’islam negare alle donne i loro diritti».

Affermazioni benvenute, ma il punto 9 suscita preoccupazioni. Ancora più inquietanti i punti 21 e 22. Vi si legge: «21) L’insurrezione armata è proibita per qualsiasi motivo diverso che l’aperta miscredenza da parte del governante e il fatto che non permette ai credenti di pregare. 22) È proibito nell’islam dichiarare il califfato senza il consenso di tutti gli altri musulmani». Qui gli studiosi stanno affermando che se un giorno il capo di Stato di un paese islamico dovesse dichiararsi ateo, l’insurrezione contro di lui sarebbe legittima. Ma soprattutto affermano che l’istituzione di un califfato universale è obiettivo legittimo, e che l’Isil sta sbagliando il modo, non il fine. Così il punto 22 viene sviluppato nel testo della lettera: «C’è accordo fra gli studiosi che il califfato è un dovere di tutta l’Umma (la comunità universale dei musulmani, ndr). L’Umma è priva di un califfato dal 1924. Tuttavia un nuovo califfato richiede il consenso di tutti i musulmani e non soltanto di quelli che vivono in una piccola regione del mondo». Lo stesso problema si presenta con gli hudud, le pene corporali che comprendono il taglio delle mani dei ladri o la lapidazione delle adultere: i saggi non contestano il principio, ma la sua applicazione: «Le punizioni corporali sono fissate nel Corano e negli Hadith (i detti di Maometto, ndr)», scrivono. «Tuttavia non devono essere applicate senza discernimento, informazione, esortazione e sulla base di solide prove; non possono essere erogate in modo crudele (…). In tutte le scuole di giurisprudenza le punizioni corporali hanno chiare procedure che devono essere implementate con misericordia, e le condizioni alle quali sono soggette rendono difficile la loro effettiva applicazione».

Una strada lunga e difficile
A ciò si aggiunga il fatto che nella lettera le azioni dell’Isil sono apertamente condannate, ma non vengono mai definite “terrorismo”, né i loro autori sono chiamati “terroristi”. I saggi si rivolgono con rispetto ad al Baghdadi chiamandolo “dottore” e i suoi uomini vengono definiti «seguaci e combattenti dell’autoproclamato Stato islamico». Insomma, la strada dell’educazione dei musulmani è lunga da percorrere, e non priva di difficoltà. Come ha scritto l’islamologo Ayman Ibrahim su First Things (importante periodico americano che si occupa di religione e questioni politiche) a commento della lettera: «Con tutto il dovuto rispetto per i saggi musulmani che hanno firmato questa lettera: grazie, ma non basta».

@RodolfoCasadei

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