Strage migranti. Serve un intervento sul suolo libico, non i bla bla bla dei talk show

Una questione così seria non può essere affrontata con le battute dei Gassmann, dei Saviano e dei Salvini. Occorrono decisioni serie e gravide di conseguenze. È già troppo tardi

Se è vero, come scriveva Rudyard Kipling, che è difficile continuare a usare la testa quando tutti intorno la perdono, ancora più difficile è usare la testa e convincere le masse popolari a farlo quando le élites usano delle tragedie per curare i propri interessi: elettoralistici, di corrente di partito, di immagine personale, ecc. Allora la realtà non conta, è solo un pretesto per promuovere la propria agenda. La morte di 700-900 immigrati affogati nel mar Mediterraneo l’altro ieri si è trasformata nel giro di poche ore in un festival degli sciacalli travestiti da persone mosse da sollecitudine morale. Lungo un arco che conosce due opposti estremi: quello di Matteo Salvini, che dichiara che le vittime sono «altri morti sulle coscienze sporche di Alfano e Renzi», e quello di Roberto Saviano che su Repubblica sproloquia che «quei morti di nessuno pesano sulle nostre coscienze».

DI CHI È LA RESPONSABILITA’. Nella realtà, il peschereccio col suo carico umano è naufragato 60 miglia a nord della Libia, dal cui porto di Zuara era partito, in acque internazionali da sempre rivendicate dai libici come acque interne in base al concetto di “baia storica”. È affondato mentre veniva soccorso dalla King Jacob, un mercantile portoghese allertato dal Comando generale delle Capitanerie di porto italiano, a causa dello spostamento del carico: i passeggeri stipati nel natante si sono spostati in un numero eccessivo verso una fiancata, e con ciò hanno causato il capovolgimento della loro nave. La King Jacob negli ultimi giorni aveva già effettuato quattro soccorsi, sempre su indicazione italiana. Le prime acque italiane, quelle di Lampedusa, si trovano a 120 miglia dal luogo del naufragio. Perciò i morti di sabato notte non pesano né sulle coscienze di Alfano e Renzi, né su quelle di noi tutti, bensì sulle coscienze dei trafficanti di uomini che hanno sovraccaricato il peschereccio e sulle formazioni armate e i gruppi politici libici che permettono questo traffico e ci lucrano finanziariamente e politicamente. Non il governo italiano o il popolo italiano hanno mostrato indifferenza per la vita dei migranti, ma coloro che ne hanno organizzato l’esodo dall’Africa.

I TRAFFICANTI. A Saviano e alla sinistra del Pd che sembra voler sfruttare l’occasione per attaccare Renzi va detto che la dinamica degli eventi sarebbe stata la stessa anche se fosse ancora in vigore l’operazione Mare Nostrum. A Salvini che invoca il blocco navale va detto che tale forma di intervento può facilmente causare tragedie (si ricordi che nel 1997 nel canale di Otranto le manovre di blocco di una corvetta italiana causarono il naufragio di una motovedetta albanese e la morte di 83 persone), non porta all’estinzione del fenomeno delle partenze e i suoi costi non sono proporzionali ai risultati prevedibili. Il problema da affrontare è quello mirabilmente evidenziato da Gian Micalessin su Il Giornale di oggi: le partenze di migranti si sono moltiplicate esponenzialmente perché ciò è nell’interesse dei gruppi armati islamisti in Libia e del cosiddetto “governo di Tripoli” egemonizzato dai Fratelli Musulmani. Zuara, il porto da cui ha preso il mare il peschereccio della tragedia, è politicamente allineata a Fajr Libia, la più importante milizia islamista dell’area.
Scrive l’inviato: «Da agosto le milizie jihadiste del sud – costrette prima a fare i conti con le formazioni leali al deposto governo laico – possono trasferire decine di migliaia di esseri umani verso le coste settentrionali. Questi trasferimenti generano un impressionante giro di valuta pregiata. Mentre i trafficanti del sud incassano 800 dollari per ogni disgraziato spedito sulle coste settentrionali, quelli del Mediterraneo ne incassano 1.500 per ogni migrante salito sui barconi. Il carico naufragato ieri garantiva, tanto per essere chiari, un fatturato da 900 mila dollari. Al netto delle vite perdute. A differenza di quanto avveniva fino ad agosto questo denaro viene oggi equamente suddiviso tra le organizzazioni criminali e i vertici di Fajr Libia che garantiscono “protezione” ai trafficanti. L’evoluzione è particolarmente evidente sia a Zuara, la città alleata di Fajr Libia a 60 chilometri dalla frontiera tunisina dove si registra il maggior numero di partenze, sia a Zawiya e Qarabully, le spiagge utilizzate dai trafficanti attivi a ovest ed est di Tripoli. In queste località le motovedette libiche non si limitano a ignorare gli scafisti, ma garantiscono assistenza e appoggi ai trafficanti di uomini. Una realtà emersa con drammatica evidenza una settimana fa quando una motovedetta di Tripoli ha sparato contro un’unità della Guardia Costiera costringendola a rimettere in mare un barcone sottratto agli scafisti».

QATAR E TURCHIA. Altro che buonismo di Alfano e Renzi, altro che indifferenza morale di italiani ed europei di fronte al fenomeno delle emigrazioni di massa: qui ci troviamo nel pieno di una crisi di politica internazionale, con protagonisti che hanno un nome e un cognome, con cause ed effetti ben identificabili, con ricadute quantificabili su di noi. È evidente che non basta soccorrere in mare le persone in pericolo di vita. La soluzione sta in un intervento sul suolo libico. Ma qui cominciano i problemi, apparentemente insormontabili.
Supponiamo che l’Italia, o meglio una coalizione di paesi europei, o magari una coalizione di paesi mediterranei, europei ed arabi, ottengano un mandato delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea per reprimere con tutti i mezzi il traffico criminale di esseri umani che ha le sue basi in Libia.
Ci esporremmo a due grossissimi pericoli: il primo è che gli sponsor del “governo di Tripoli” se ne farebbero un baffo dell’autorizzazione Onu/Ue al nostro (e di qualche alleato) intervento. Ci ritroveremmo di fatto in guerra con Turchia e Qatar, paesi che appoggiano Tripoli contro Tobruk.
Il secondo pericolo è rappresentato dalle conseguenze politiche e propagandistiche dell’intervento: è verosimile che esso produrrebbe un avvicinamento fra gli islamisti di Tripoli e quelli che si sono federati all’Isis; inoltre forniremmo ai macellai dello Stato islamico l’occasione per una speculazione mediatica attraverso i loro strumenti di propaganda (che, come sappiamo, sono notevoli e di molto superiori alla loro reale forza militare) per far passare l’idea che gli infedeli hanno invaso la sacra terra dell’islam, e dunque bisogna correre sotto le bandiere del califfato per difenderla.

C’È UN LEADER? Dunque, da una parte, si profila l’assoluta necessità di intervenire con tutti i mezzi, anche quelli militari, per far fronte a quello che non è solo un drammatico problema umanitario, ma una questione di sicurezza nazionale. Islamisti e jihadisti della sponda Sud sono intenzionati a spedirci milioni di infelici attraverso il mare Mediterraneo sia per finanziare le loro guerre che per destabilizzare il continente europeo, che loro considerano territorio nemico da conquistare e sottomettere nel lungo periodo.
Dall’altra parte, una reazione assertiva sul piano politico e militare rischia di trascinarci in qualcosa che assomiglierebbe molto a una guerra, di esporci ancora di più ad attacchi terroristici, e tutto ciò senza poter contare su un’autentica solidarietà europea o euroatlantica. Affrontare con sangue freddo e con senso della leadership i dilemmi di un momento storico come questo non è impossibile, ma servirebbero un Churchill o un De Gaulle, personalità di cui non si vede l’equivalente nell’Europa di oggi, per non parlare dell’Italia.

CARO GASSMANN. Di fronte a questi dilemmi l’ala buonista dell’intellighenzia e dell’opinione pubblica dice: prima di tutto salviamo le vite umane, sia la nostra politica estera un grande intervento umanitario. Qualche sera fa abbiamo ascoltato in tivù l’attore Alessandro Gassmann denunciare l’egoismo italiano, perché mentre paesi come Libano e Giordania si sono presi in casa quasi un milione di profughi siriani a testa, che significa un profugo ogni tre libanesi e un profugo ogni sei giordani, in Italia ci sentiamo invasi con poco più di 100 mila rifugiati e richiedenti asilo riconosciuti come tali.
L’attore dice di aver visitato i centri di accoglienza in Giordania e Libano, ma forse non si è fatto un’idea chiara della situazione. In Libano e Giordania le risorse con cui i profughi sono assistiti sono quasi interamente internazionali. I sistemi nazionali di welfare sono quasi inesistenti, le legislazioni del lavoro pure, e i due paesi non concedono la nazionalità ai profughi per non sbilanciare gli equilibri locali. Un milione di rifugiati siriani in Libano non è la stessa cosa che, per mantenere la proporzione, 15-20 milioni di richiedenti asilo in Italia. A parte i problemi di ordine pubblico e di pressione sulle infrastrutture delle nostre città, i costi della sanità, alla quale tutti in Italia hanno il diritto di accedere, esploderebbero nel giro di pochi mesi, e il lavoro nero conoscerebbe un boom terrificante. I buonisti della Cgil non saprebbero dove andare a nascondersi.
Di una sola cosa, di fronte alle tragedie odierne e alle drammatiche scelte che incombono, possiamo compiacerci: i teatrini dei talk-show italiani, coi loro schieramenti prefabbricati di buonisti ed antibuonisti di professione, stanno per chiudere i battenti. E sarà sempre troppo tardi.

@RodolfoCasadei

Exit mobile version