Non si può passare alla guerra con Putin senza dichiararla. Innanzitutto agli italiani

Il presidente russo Vladimir Putin (foto Ansa)

Su Formiche Matthew Kroenig, professore alla Georgetown e senior fellow Atlantic Council, dice: «È inimmaginabile avere normali relazioni diplomatiche con la Russia senza avere un coordinamento sul controllo delle armi o l’escalation nucleare. Lo è ancor di più immaginare Joe Biden che si siede accanto a quello che ha definito un “criminale di guerra”. No, attualmente per gli Stati Uniti la Russia vale come l’Iran o la Corea del Nord».

Senza dubbio si sta definendo con chiarezza un orientamento dell’amministrazione Biden (al momento largamente sostenuta dal Congresso e con un certo appoggio di un certo liberalismo radicale europeo) del tipo di quello spiegato dal professor Kroenig secondo il quale l’unico obiettivo possibile è la disgregazione della Russia. Obiettivo al quale si collega l’annessa valutazione che chiunque si opponga a questa linea non possa che essere considerato – secondo un antico termine – un panciafichista, cioè uno che cura più la propria “pancia per i fichi” che il necessario dovere patriottico. Se questa tendenza politica internazionale si manifesta con chiarezza, forse la situazione politica europea è più articolata.

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Su First online Vittoria Patanè scrive: «Ammonta a 44 miliardi di euro il conto pagato dalla Ue alla Russia nel corso di questi ultimi due mesi di guerra per gas, petrolio e carbone. Una cifra elevatissima che ha consentito a Mosca di raddoppiare i ricavi derivanti dalla vendita di combustibili fossili. Ma non è finita qui perché, paradosso nel paradosso, mentre le entrate si gonfiavano grazie all’impennata dei prezzi delle materie prime diminuiva il volume delle esportazioni. Tradotto: la Russia ha esportato meno gas, petrolio e carbone, ma ha guadagnato di più. Una realtà con cui l’Unione Europea sta facendo i conti in vista delle nuove sanzioni (che stavolta potrebbero coinvolgere anche il petrolio) attese per la prossima settimana dopo lo stop delle forniture imposto da Mosca a Polonia e Bulgaria».

Le basi strutturali dell’economia europea non consentono di passare da un conflitto circoscritto come quello ucraino a una condizione di guerra aperta (seppur condotta militarmente per procura dagli ucraini), senza in qualche modo dichiararla spiegando innanzi tutto ai propri cittadini quali sono gli obiettivi di questa guerra per procura e quali saranno i sacrifici che verranno imposti.

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Su Dagospia si scrive: «Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del riarmo! Gli italiani, raccontava Pagnoncelli martedì, ospite di Giovanni Floris, non sono affatto favorevoli alla piega che sta prendendo la guerra in Ucraina. Solo il 13 per cento si dichiarava favorevole all’aumento degli aiuti militari a Kiev, mentre il 49 per cento sosteneva la necessità di rimanere “realistici”. Tradotto: facciamoci gli affari nostri e non andiamo a stuzzicare troppo Putin. Anche in Germania questo “sentiment” (come direbbero quelli bravi) inizia a montare. Berlino, dopo il casino fatto nella Seconda Guerra mondiale, si è sempre ben guardata dall’investire troppi soldi in Difesa. Un tabù rotto dall’invasione di “Mad Vlad”, che ha fatto cambiare idea al governo tedesco guidato da Olaf Scholz».

Dagospia spesso le spara grosse, però l’oggettiva difficoltà delle opinioni pubbliche tedesca e italiana ad accettare uno stato di guerra, sia pure per procura, forse non è un’invenzione.

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Su Huffington Post Italia Pietro Salvatori scrive: «Se l’Europa non si sveglia l’Eni pagherà il gas in rubli, sarà costretta a farlo per non passare dalla parte del torto con la Russia. È questa la sintesi di una giornata convulsa, densa di contatti e riunioni a tutti i livelli per capire il da farsi su una questione delicatissima: accettare il meccanismo di pagamento imposto dalla Russia che prevede l’apertura di un doppio conto presso Gazprombank – uno in euro e uno nella valuta di Mosca – che sostanzialmente sterilizza l’effetto delle sanzioni?».

Ecco un esempio preciso di come per dichiarare lo stato di guerra, sia pure per procura, auspicato da diversi ambienti, si debbano fare i conti con i problemi “materiali”.

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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «L’Iran, effettivamente, possiede grandi riserve di gas naturale. Su Twitter però Annalisa Perteghella, analista presso il think tank Ecco e già research fellow all’Ispi, specializzata in questioni mediorientali, ha spiegato che “la produzione di gas iraniana va quasi interamente a soddisfare la domanda interna, sul breve-medio periodo è difficile” che possa proporsi come fornitore all’Italia. “Anche a livello infrastrutturale è complesso”, ha aggiunto. Sempre su Twitter Jacopo Scita, fellow presso la Durham University’s School of Government and International Affairs, sintetizza così: “Al volo, su ruolo dell’Iran come fornitore alternativo: Potrebbe? Sì, potenzialmente. Può ora? Direi no. Potrà? Difficile”. Riconosce però che il Copasir “dice una cosa vera” sull’esistenza di buoni rapporti tra Roma e Teheran».

Certe scelte di soluzione dei nostri problemi “materiali”, come quella di affidarsi all’Iran, non sarebbero senza conseguenze politiche soprattutto verso soggetti come Israele e l’Arabia Saudita che non hanno un peso secondario in un Medio Oriente e in un Mediterraneo in cui Roma dovrebbe avere un qualche ruolo.

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Sul Sussidiario Nicola Berti scrive: «Qualche problema – in Italia – potrà semmai affliggere il Pd, che ha oggi alla sua guida l’ex leader del Movimento giovanile dei cristiano-democratici europei. Fra dieci mesi in Italia si terranno le elezioni politiche: il Pd – che fra le sue autolegittimazioni ricomprende la rappresentanza “autentica” del voto cattolico – sosterrà la “guerra fino alla vittoria” in Ucraina? Come il premier conservatore “brexiter” Boris Johnson, che ha ventilato la legittimità dell’uso delle armi inviate dalla Nato in Ucraina per colpire direttamente la Russia?».

La linea seguita da Enrico Letta, ben coordinata con Sergio Mattarella e Mario Draghi, ha una sua seria coerenza tattica e per molti aspetti “ideale”, però manca di un’adeguata visione strategica, surrogata da un nobile europeismo però non sempre concretamente realistico e peraltro priva di un elaborato rapporto con le basi sociali che si vogliono rappresentare.

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Su Huffington Post talia Alessandro De Angelis scrive di Enrico Letta: «È opinione diffusa, nell’attuale gruppo dirigente del Pd, che in parecchi, sia pur in modo scomposto e senza una trama unitaria, coltivino il disegno di mandarlo a sbattere nel 2023, dopo una finanziaria di lacrime, per poi fare una roba italiana alla Mélenchon (al congresso del Pd) su cui la manovra si è già messa in moto e si intravedono dei segnali».

Non è facile per Enrico Letta articolare le sue pur nobili posizioni in politica estera con la realtà storica della sinistra italiana. Con una parte di questa sinistra peraltro (quella Grillo-Conte) che è già partita per una deriva “cinese” non priva di sponde in un Romano Prodi e in un, pur sempre più disperato, Massimo D’Alema.

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Su Linkiesta Mario Lavia scrive: «Il Pd dunque rimette la testa sulla questione sociale, anche perché in due anni di emergenza Covid il tema era stato lasciato in ombra. Adesso per di più si profilano conseguenze drammatiche per effetto della guerra di Vladimir Putin e dei connessi problemi sul fronte del gas e dell’aumento generale dei prezzi. Vedremo se le varie proposte illustrate martedì nella apposita Agorà convocata al Nazareno (ma non si poteva tenere in un luogo pubblico?) avranno un futuro o si infrangeranno contro il muro delle compatibilità finanziarie – perché si tratta di proposte che costano, Enrico Letta ha parlato di 15 miliardi e non sono noccioline».

Si potrà percorrere la scorciatoia di scambiare radicalismo sociale per fedeltà atlantica? Linkiesta ne dubita.

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Su Strisciarossa Nadia Urbinati scrive: «Siamo permanentemente sommersi di parole, polemiche, giostre mediatiche, sondaggi e grida. Una opinione caciarona tanto rumorosa quanto priva di influenza su coloro che decidono, i quali decidono senza coinvolgere il Parlamento, ora che in gioco c’è non semplicemente l’aiuto all’Ucraina invasa, ma il rischio di un possibile coinvolgimento diretto dei paesi europei. Vorremmo dunque che il Parlamento diventi centrale, poiché la questione è più che mai quella della guerra. È avvilente come l’opinione sia depotenziata della sua autorevolezza in proporzione al vociare quotidiano. Sembra quasi che i talk show rendano il governo persuaso di avere una linea di comunicazione diretta col pubblico. Così ovviamente non è. Non solo perché l’audience confezionata dai talk show serve meglio il mercato pubblicitario che la formazione di opinioni ragionate e ragionevoli. Ma anche perché la democrazia ha una e solo una opinione autorevole, il Parlamento. Il quale dovrebbe chiedere al governo di andare in aula, non per l’informativa di rito da parte del ministro competente, ma per conoscere dalle Camere riunite l’autorevole opinione dei cittadini. Il Parlamento che discute davanti alla nazione di un problema che interessa e ha un impatto su tutti indistintamente darebbe autorevolezza alla deliberazione democratica».

La Urbinati spesso sostiene tesi radicali che non mi convincono, però la sua riflessione sul deficit democratico della politica italiana non mi pare del tutto infondata.

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Su Atlantico quotidiano Gianmluca Spera scrive: «Un regime sanitario che utilizza la mascherina come simbolo di fedeltà e ispira norme inutili ormai sconosciute al resto del mondo civile».

Peraltro anche i più coerenti sostenitori, a destra, di una politica estera assolutamente “atlantica” non credo che faranno troppi sconti alla sinistra su alcune altre questioni fondamentali.

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