Non ho perso la fede per le chiese chiuse, ma «la Chiesa in streaming porta alla gnosi»

Le diverse posizioni dei vescovi italiani e del Papa sulle Messe vietate. Il rischio di ridurre la ragione al già saputo. E l'eucarestia a un "simbolo"

Cronache dalla quarantena / 47

Avevo scritto questa cosa prima che ieri uscisse il retroscena di Massimo Franco. Ma si capisce, anche senza essere informati da Rocco Casalino o dalle segrete stanze vaticane delle telefonate che corrono tra un capo del governo e un capo della Chiesa, i fatti insegnano. 

Orbene, può essere che ce la siamo persi in tanti l’omelia del Papa dell’altro ieri, 28 aprile, in Santa Marta. Perciò vado al bollettino ufficiale della Santa Sede e riproduco qui le testuali e integrali parole di introduzione (“Introduzione” scritto in maiuscolo e neretto) pronunciate la mattina del 28 aprile da papa Francesco prima dell’omelia in Santa Marta.

«Introduzione. In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni».

Sono parole chiarissime. Le capiscono tutti. Vengono pronunciate dal Papa la mattina di martedì 28 aprile. La sera prima, lunedì 27, tutte le agenzie europee avevano battuto la notizia del duro intervento dei vescovi italiani contro il governo. Nessuna illazione, ma siamo persone dotate di cervello, non pietre carsiche.

Dunque, delle due l’una.

1) Il Papa e vescovo di Roma domanda «la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni perché l’epidemia non torni» per tutti i popoli di tutti i paesi dove la prima fase della pandemia è stata superata. Diciamo, un arco di nazioni che va dalla Nuova Zelanda all’Italia passando per la Cina.

2) Il Papa e vescovo di Roma pensa proprio all’Italia. Ed è ovviamente al corrente sia delle disposizioni del governo Conte. Sia della dura nota Cei del giorno prima («compromesso l’esercizio della libertà di culto»). La quale nota episcopale, come sappiamo, fa seguito alla conferenza stampa in cui Giuseppe Conte NON ha disposto la riapertura delle chiese per la cosiddetta “fase 2”.

Ripeto, delle due l’una. E francamente, a me pare evidente la seconda, che lascia liberi i vescovi di dire la loro e – cosa che suppongo avrà fatto ancora una volta Giuseppi very very happy – libero il Papa di precisare la sua.

Forse sarebbe stata preferibile una terza ipotesi, alla Gómez Dávila, certo solo di scuola, ma che ci avrebbe permesso di discutere con franchezza in margine a un testo rimasto implicito. E reso esplicito dall’editoriale del quotidiano romano Il Messaggero, sempre dell’altro ieri, 28 aprile, a firma di Carlo Nordio. Dove in modo forse eccessivamente scanzonato e polemico, l’ex procuratore di Venezia censurava come «eccessiva» e sostanzialmente imprudente la «reazione della Cei» alle disposizioni del premier Conte.

Con perfetta sintesi dell’editoriale – probabilmente suggerito dallo stesso Nordio – il titolo del Messaggero recitava: “Il primato della ragione tutela anche la Chiesa”. Vero. Ma di quale “ragione” stiamo parlando? Carlo Nordio sembrerebbe riferirsi esclusivamente alla ragione scientifica così come viene proposta dal Comitato tecnico scientifico che assiste Conte e che Conte a sua volta trasferisce ai cittadini italiani.

Altrove, si potrebbe controdedurre a Nordio, è circolato un bello e appassionato intervento in video del vescovo di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole. Che prima di tutto rivelava che c’era stato un lungo e cordiale confronto tra governo e vescovi. Che i vescovi hanno fatto presente al premier Conte il fatto che la Chiesa non sottovaluta affatto la ragione e le ragioni del comitato scientifico. Ma che al contempo – come ha spiegato chiaramente in questa intervista a Tempi anche don Roberto Colombo, sacerdote e ricercatore scientifico – la Chiesa ha l’esperienza e la responsabilità per gestire la riapertura dei “luoghi di culto” con tutti gli accorgimenti del caso.

Tutto ciò, vien da dire al nostro amico Carlo Nordio, parrebbe proprio un modo di approcciare la realtà (Covid compreso) che allarga e non minaccia la ragione. Lo abbiamo ripetuto spesso qui con don Luigi Giussani. Che entusiasta della definizione di ragione data dal filosofo Jean Guitton, ci ha insegnato che la ragione, la ragione vera, «è sottomissione della ragione all’esperienza».

Non è una tautologia. È quanto affermato anche da papa Benedetto XVI nel discorso che fece nel 2011 al Parlamento tedesco, quando invitò a distinguere una ragione aperta (razionale) e una ragione chiusa (razionalistica). Una ragione dell’ordine della finestra aperta sulla realtà, tutta protesa a imparare dall’esperienza – da qualunque esperienza – cioè imparare da una vita esaminata. E una ragione positivista rappresentata da papa Ratzinger come un palazzo di cemento armato senza finestre, tutta compresa in se stessa e tutta compressa in difesa di ciò che sa già.

Non abbiamo riaperto nessuna chiesa con queste nostre osservazioni. Né abbiamo preso parte alle polemiche. Ci interessa capire. Abbiamo visto che sul tema “chiese chiuse / chiese aperte” anche il Papa ha tenuto una barra che forse – poi abbiamo avuto conferma dal Corriere della Sera – non collima con le richieste al governo presentate dai suoi vescovi.

Comunque, non abbiamo perduto la fede in Gesù Cristo perché le chiese sono rimaste chiuse. E perché Papa e vescovi non collimano sul governo Conte. Anzi, l’abbiamo conservata bene anche in questo tempo di sacrificio e di “comunione spirituale”. Mai andati a Messa e al Rosario tutti i giorni come in questi due mesi via social.

Mai ho pensato che questo sia l’ideale. Nei giorni scorsi però lo stesso papa Francesco ha fatto chiaramente intendere che è impensabile si possa restare membra dello stesso corpo di Cristo nella Chiesa di Cristo senza Cristo. «Questa è gnosi», ha detto il Papa. «La chiesa in streaming porta alla gnosi». La gnosi del “se credi, non importa se vai a pregare in chiesa, sui monti, nel deserto, sul computer o sopra il letto di camera tua”. Tanto l’eucarestia è un “simbolo”.

Un simbolo. Come una sera a cena sostenne il marito di Mary McCarthy, precorritrice del cattolicesimo democrat, scrittrice e prima donna dell’industria culturale sulla scena americana del secolo scorso. Era la famosa cena a casa McCarthy in cui a tavola sedeva anche Flannery O’Connor. E lo sapete come andò a finire. Perché siamo talmente affezionati a quella scena da non averla dimenticata mai. «Beh – sbottò la nostra amica Flannery – se è un simbolo, che vada al diavolo».

Foto Ansa

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