La responsabilità di chiamare la persecuzione con il suo nome

Matzuzzi al Premio Amicone: «Va di moda nascondersi la realtà con la scusa della “complessità”, anche quando le evidenze sono semplici. Per esempio in Cina e nel caso Pell»

Matteo Matzuzzi, vaticanista e caporedattore del Foglio, alla cerimonia di consegna del Premio Luigi Amicone a Caorle, 17 luglio 2022

Pubblichiamo il discorso pronunciato da Matteo Matzuzzi, vaticanista e caporedattore del Foglio, domenica 17 luglio 2022 nella Sala Rappresentanza del Comune di Caorle durante la cerimonia di consegna del Premio Luigi Amicone, al termine della festa di Tempi dedicata al coraggio di “Chiamare le cose con il loro nome”.

[Leggi anche l’intervento di Monica Ricci Sargentini, l’altro premiato di questa prima edizione].

Nella stessa occasione Matzuzzi ha ricevuto inoltre il Premio Cultura assegnato dalla Città di Caorle.

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Innanzitutto, grazie al sindaco della “piccola Venezia” Caorle, non l’avevo mai vista e complimenti anche per come è tenuta. Grazie anche all’assessore della Regione del Veneto, è sempre un piacere per me tornare qua perché ho vissuto i cinque anni universitari a Padova. Lì è iniziata una serie di amicizie che continuano ancora dopo undici anni. E grazie ovviamente a Tempi per il premio.

L’assessore prima ha detto delle cose a cui avevo già pensato. Il discorso del “2+2 fa 5” è sempre più attuale ed evidente anche nella mia professione e nel settore che ha prettamente a che fare con la Chiesa.

“Chiamare le cose con il loro nome”: ci sono delle cose che non possono e non potrebbero essere chiamate in altro modo nella realtà che noi vediamo e viviamo, quella con cui siamo chiamati a confrontarci ogni giorno.

Però è sempre più complicato: c’è sempre chi dice che in realtà due più due non fa quattro ma cinque. Eppure, io non penso che tutto sia così complesso come oggi va di moda dire; non penso che la realtà sia davvero eternamente complicata, che vada sempre spiegata o interpretata. A mio avviso, ci sono delle cose assolutamente vere, evidenti, molto semplici da constatare. Cose che bisognerebbe limitarsi a descrivere e raccontare.

Faccio un esempio per quanto riguarda il settore che più mi coinvolge (e che Tempi tra l’altro segue molto bene): la Chiesa in Cina, Hong Kong. Ci troviamo in una situazione molto complicata: come avrete letto anche dalle interviste del Papa più recenti, la Chiesa ha tentato una grande apertura nei confronti del regime cinese relativamente alla nomina dei vescovi. Un negoziato che sarebbe un primo passo, si dice, per una futura – chissà se possibile – apertura diplomatica fra qualche anno o decennio.

Questo ha comportato, però, che su quanto avviene a Hong Kong non si possa dire nulla. È diventato un buco nero proprio perché si dice che “la situazione è molto complessa”.

Noi abbiamo dei testimoni come il cardinale Zen, novantenne, arrestato lo scorso maggio. Fino all’ultimo continua a protestare e a scendere in piazza rischiando moltissimo per riaffermare un’evidenza, la voglia di libertà, un desiderio insopprimibile. E questo comporta la reazione di Pechino.

È solo un esempio, ma è quello che mi viene in mente anche in riferimento a quanto si diceva nelle motivazioni del premio, quando si sottolineava la lettura diplomatica dei fatti che coinvolgono la Chiesa.

C’è un altro caso di questa “realtà molto complessa”: il processo del cardinale George Pell, la classica situazione di persecuzione (non è esagerato dirlo). Un uomo perseguitato fin dai tempi in cui si trovava in Australia, arcivescovo di Sydney, prima di venire a Roma per un caso montato ad arte su una situazione che poteva essere chiarita in breve tempo, se si fossero letti gli atti processuali. Ci si sarebbe accorti subito che era una gigantesca montatura; addirittura era accusato di aver stuprato dei coristi in sacrestia al termine di una Messa pontificale, quando era a Melbourne, e condannato in secondo grado per poi essere assolto con giudizio unanime della Corte suprema australiana con verdetto di 7 a 0. Nel frattempo, prima di arrivare al verdetto d’assoluzione, si è fatto anni in galera impedito anche a celebrare la Messa, con la sofferenza per il carico di tutto quello che si diceva sul suo conto e sul conto della Chiesa. La riduzione della Chiesa a “casa di accoglienza per pedofili”, come vediamo da certi rapporti internazionali che vengono diffusi.

Il mio giornale si è limitato semplicemente a leggere i fatti per quel che erano, da un punto di vista laico, perché non è che qui c’entra molto l’essere cattolici o appartenere a un credo religioso. Bastava guardare le carte, leggere.

Dobbiamo cercare davvero di fare uno sforzo (anche noi giornalisti, che spesso tendiamo a non farlo) di chiamare le cose con il loro nome, cioè semplicemente a guardare le cose e a dire quello che sono. Senza avere paura di offendere qualcuno, di scontentare una consorteria temendo preclusioni per la carriera professionale futura.

Bisogna a volte rischiare e se uno si trova a fare il giornalista non deve pensare di fare “il receptionist” (con tutto il rispetto per la categoria) o stare seduto dietro una scrivania e limitarsi a compulsare registri o agenzie. Deve rischiare, deve prendersi delle responsabilità e poi sarà quel che sarà. L’importante è che deve avere sempre una un’etica professionale, un rapporto con la propria coscienza che deve portare a dire di cercare di fare le cose per il meglio.

Grazie.

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