Libia. Così lo Stato islamico si è preso Sirte, la città di Gheddafi a 300 miglia dall’Italia

Sono arrivati in pochi, poi hanno riunito attorno alla propria bandiera i terroristi di Ansar al-Sharia. Ora neanche le milizie islamiste che controllano Tripoli hanno intenzione di attaccarli

A Sirte, città di Muammar Gheddafi, sventola ovunque la bandiera nera dello Stato islamico. Il dominio dell’Isis, nella città libica a 300 miglia dalle coste italiane, è cominciato con uno sparuto manipolo di jihadisti, «provenienti da Egitto, Tunisia, Siria, Algeria e molti altri luoghi». In pochi mesi, come avvenuto per la conquista di Derna, i terroristi sono riusciti a prendere il controllo della città assoggettando con promesse e minacce i membri delle altre milizie.

«NESSUNO HA RINNEGATO GHEDDAFI». «I guerriglieri locali li hanno visti come l’unico modo per tornare ad avere potere dopo l’uccisione di Gheddafi», racconta al Telegraph Milad, residente in città. I terroristi hanno stabilito il loro quartier generale nel centro di Ouagadougou, un tempo fiore all’occhiello del dominio del’ex raìs. «Quasi nessuno in città ha rinnegato Gheddafi. Ecco perché dopo la guerra molti hanno preso le distanze dalla nuova Libia» e dai suoi governanti, che in città vengono chiamati «ratti».

ANSAR AL-SHARIA. Dopo l’uccisione di Gheddafi, il vuoto di potere è stato riempito dai terroristi islamici di Ansar al-Sharia, «che si sono conquistati il favore della popolazione distribuendo soldi e con opere di carità verso i bisognosi». Ad agosto, la Libia si è divisa tra due governi concorrenti: quello eletto e riconosciuto dalla comunità internazionale è stato costretto a rifugiarsi a Tobruk, cacciato da Alba Libica, coalizione islamista di milizie che governa su Tripoli e Misurata. Alba Libica, alleandosi con i jihadisti di Ansar al-Sharia, è entrata anche in controllo di Sirte.

IL SODALIZIO. «Non abbiamo mai avuto problemi con loro», spiega Mohamed Lahal, comandante della brigata 166 di Alba Libica. «La maggior parte di loro proveniva da Sirte. Quindi non hanno ucciso nessuno. Avevano il sostegno delle tribù locali». In autunno, però, piccoli gruppi di jihadisti dello Stato islamico cominciarono ad arrivare in città: presero i minareti delle moschee, dichiarando la città parte del Califfato, e sfilarono in parata sui loro pick-up fino al quartier generale di Ansar al-Sharia. Per la maggior parte «vennero bene accolti e in tanti giurarono fedeltà ad Al-Baghdadi».

«ERA L’UNICO MODO». L’Isis cercò subito l’appoggio degli ex gheddafiani, promettendo un posto di rilievo in cambio «del pentimento per aver aiutato un dittatore». Molti accettarono: «Era l’unico modo per ottenere protezione e non essere arrestati dai nuovi governi per il loro sostegno a Gheddafi». Nelle ultime settimane, la presa del potere ha avuto ricadute sulla vita sociale: i jihadisti sono entrati nelle università, obbligando uomini e donne a studiare separati. Ai manichini nei negozi è stato messo il velo e le sigarette sono state bandite. «Sono andati dai negozianti e li hanno obbligati ad assumere le persone che si erano affiliate allo Stato islamico, pena la morte», racconta Milad.

ACCORDO DIFFICILE. Per il momento Alba Libica non ha nessuna intenzione di combattere contro lo Stato islamico. «I miei uomini sono alle porte della città ma non ho ordine di entrare», confessa il comandante della Brigata 166 Lahal. L’obiettivo dell’Onu è quello di aiutare, anche militarmente, a combattere l’Isis solo quando i governi di Tobruk e Tripoli avranno composto un nuovo esecutivo di unità nazionale. Ma è difficile unire Tobruk, che sta combattendo contro Ansar al-Sharia a Bengasi, con Alba Libica, che si è alleata ai terroristi islamici a Sirte.

ATTENTI AL PETROLIO. Sembra pensarla così anche Khalifa Haftar, da poco nominato generale dell’esercito di Tobruk: «A Renzi chiedo di convincere la comunità internazionale a rimuovere l’embargo sulle armi e di aiutarci a combattere per una Libia libera dagli estremisti», ha dichiarato all’Ansa. «Se dovesse vincere l’Isis sarebbe a rischio la vostra sicurezza, stiamo combattendo anche per voi. Noi siamo un popolo orgoglioso, possiamo combattere questa guerra anche a mani nude ma Qatar, Turchia e Sudan stanno aiutando gli estremisti con armi e finanziamenti». Dopo le richieste, è il tempo delle minacce a sfondo petrolifero: «È importante che si sappia che voltata questa pagina ci ricorderemo molto bene chi ci è stato vicino e chi invece si è voltato dall’altra parte».

@LeoneGrotti

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