«La famiglia non è un fenomeno culturale ma universale. E il suo scopo è la realizzazione di sé»

Dialogo sulla famiglia fuori dagli schemi e dai pregiudizi con la psicologa della coppia e della famiglia Vittoria Maioli Sanese. «L'essere genitori è un'identità, non un lavoro»


L
a regione Lazio ha appena stanziato oltre cinquanta milioni di euro per ampliare la rete di asili nido pubblici e convenzionati; intanto la riforma dell’Isee, l’indicatore del reddito fondamentale per accedere alle agevolazioni per spese come servizi per l’infanzia e tasse universitarie, rischia di escludere il 20 per cento dei vecchi beneficiari (e sono solo stime, perché per ora sulla riforma, voluta dal governo Letta e in vigore dal primo gennaio di quest’anno, c’è più confusione che altro).

Parlare di famiglia in Italia significa parlare di servizi che mancano e discriminazioni che resistono; ma anche di definizioni circa situazioni di vita che aspirano a uno status, anche giuridico, di famiglia. Significa parlare di problemi, ma anche di diritti e desideri. Spesso ritrovandosi in un clima che quando non ristagna nella rivendicazione e nel rimpianto dei tempi andati in cui ci si sposava di più e si divorziava di meno, si accende nello scontro ideologico. L’ultimo caso è quello di un convegno sulla famiglia, che si è tenuto sabato a Milano, patrocinato dalla Regione Lombardia e moderato dal direttore di Tempi, e accusato di omofobia. È possibile parlare di famiglia – e anche di diritti – uscendo da questo schema? Offrendo un contributo a un dibattito che non sia sovrastato dalle urla di opposte tifoserie?

Tempi ha voluto provare a farlo intervistando la dottoressa Vittoria Maioli Sanese (foto in basso a destra), psicologa della coppia e della famiglia. Il dialogo è una cifra distintiva nella sua professione di terapeuta e anche nell’attività di corsi e conferenze che tiene in giro per l’Italia. La modalità, spiega, è sempre partire dalle domande, perché nessuno detiene la verità su come debba essere vissuta una famiglia. La prossima occasione sarà a metà febbraio, a Milano, quando su iniziativa del Sindacato delle famiglie la dottoressa incontrerà una ventina di giovani coppie. Per la dottoressa il tema dei nuovi diritti è tema di lavoro quotidiano, prima ancora che di riflessione pubblica. Come quando in studio arriva una mamma disperata perché il figlio da quando ha due anni cerca insistentemente il padre. Lei quella gravidanza l’ha voluta e cercata da sola, ricorrendo a un seme donato all’estero. «Poi un giorno, all’età di circa quattro anni, il bambino arriva con la “sua” risposta: ho capito, tu l’hai ucciso». E cosa si fa dottoressa? «Si lavora. Non c’è il giudizio, c’è il fatto. Se il papà non c’è, perché è solo un seme comprato, tutto nasce da quella mamma, dal suo progetto di vita e di realizzazione che deve confrontarsi con le esigenze e le domande del figlio. La sfida di senso è in assoluto la stessa di quella che vive un bambino orfano di padre».

Lei ha scritto che tutta la vita, anche il quotidiano essenziale, diventa lavoro affaticante. Perché? È questo un aspetto della crisi della famiglia di cui si parla?
Bisogna capire a cosa si attacca l’uomo di oggi. Che ha come scopo un buon funzionamento delle cose, quindi quello che è un tramite (il funzionare) è diventato uno scopo, come se lo scopo fosse il camminare e non la meta da raggiungere.

E qual è la meta da raggiungere nella famiglia?
La meta è la realizzazione di sé, il compimento della vita, l’essere felici e soddisfatti.

I cosiddetti nuovi diritti mettono in crisi la famiglia o sono il risultato di una sua crisi avviata precedentemente? O semplicemente non c’entrano nulla?
Il fenomeno a cui stiamo assistendo mi fa dire che la crisi della famiglia viene prima, ma più che altro la crisi è dell’uomo, cioè della persona. È la crisi antica che oggi è diventata affermazione violenta di sé, assoluto autarchismo dell’uomo di oggi, che si illude di avere un potere illimitato su di sé e su ciò che lo circonda. Invece la famiglia è un luogo di dipendenza, soprattutto di dipendenza da un significato che contiene il sé. È il luogo più essenziale della persona, mentre noi spesso la riduciamo a un luogo che è soltanto un tramite per poter venire al mondo; e poi una volta al mondo ognuno è padrone di se stesso. Da qui nasce tutto: la crisi della persona, la crisi della famiglia, il fenomeno per cui il diritto diventa scopo e si fa diventare diritto ciò che non è diritto, a cominciare dai figli.

Lei parla spesso di famiglie “femminilizzate”, in cui anche il padre prodiga una cura di tipo materno. Le famiglie omosessuali e quelle etero che lei definisce femminilizzate vivono le stesse problematiche?
Per rispondere a questa domanda credo si debba essere sociologi. Io, nel mio lavoro, vedo che fin dagli anni Novanta abbiamo assistito a una femminilizzazione anche perché si è tolto il potere contrattuale della famiglia a livello sociale.

Cosa significa?
Significa che la famiglia è diventato un luogo privato; mentre un tempo anche dal punto di vista economico era un soggetto vitale. A poco a poco l’identità della famiglia si è spostata dall’essere produttrice di ricchezza all’essere consumatore. Dagli anni Novanta abbiamo assistito a un distacco totale delle funzioni sociali della famiglia, è diventato tutto Stato, per cui la famiglia è stata ridotta a un luogo privato, un fortino di difesa dentro cui non resta altro da fare che fornire delle cure. Compiuta la frantumazione delle ideologie del Novecento, non son rimaste altro che polveri sottili.

Eppure questo è anche il tempo in cui le donne vivono di più fuori casa lavorando. C’è secondo lei una concezione malintesa della conciliazione tra vita e famiglia? Lei ha sei figli e ha sempre lavorato.
Quello della conciliazione è un tema assolutamente malinteso, a tutti i livelli. Molto di questo malinteso dipende dal fatto che si è espropriata la famiglia del suo valore realizzativo. Lavoro e famiglia sono due dimensioni che non devono essere concepite come nemiche. Invece spesso si sacrifica la famiglia al lavoro, tanto è vero che il matrimonio o comunque il progetto di vita stabile di una coppia arriva molto avanti nel tempo e con esso anche la maternità si sposta intorno ai 35-36 anni. Come se prima si dovesse fare tutto quello che il mondo riconosce come in grado di realizzarti: il lavoro, il consumo del tempo libero giovanile. Una delle esperienze più dolorose nel mio lavoro è incrociare donne che non diventano mai madri pur avendo figli.

Come è possibile non diventare mai madri pur avendo figli?
Il figlio nasce come decisione di compimento e già come lavoro e come impegno. Un aspetto problematico della genitorialità è l’identificazione del rapporto con il figlio come un lavoro immane, magari fatto volentieri ma di cui sentiamo la fatica. Per questo è così frequente sentire madri che si chiedono: “Ma quando penso a me stessa?”. Se l’essere genitori non è un’identità ma un fare, è chiaro che i bambini invadono completamente la vita dei genitori e allora si ha ragione a dire così. Se l’essere genitori invece è un’identità e non un lavoro, non ha senso pensare a sé, non puoi mai “pensare a te”, perché ne va dell’identità. È preoccupante l’identificazione della presenza del figlio con un lavoro. Se il genitore è colui che accetta che tutta la propria persona sia per un altro condizione del crescere, allora il genitore per prima cosa ha come oggetto di lavoro non il figlio ma sé e la propria vita. Il centro della vita non può essere il figlio: il primo sguardo non è sul figlio ma sulla propria vita. È la mia persona che lui impara. Per amare il figlio devo curare me, mio marito, la mia vita, il significato delle cose che ho fra le mani, la realtà.

Spesso chi parla di famiglia lo fa rimpiangendo tempi andati in cui tutto era “migliore”. Lei adesso è nonna. C’è qualcosa che le coppie e le famiglie di oggi vivono meglio rispetto a quelle di ieri?
Il mio sguardo non è per trovare ciò che è peggiore o migliore, anche perché ogni presente è il meglio. Quello che osservo è la forma che sta prendendo ciò che è immutabile dentro di noi. E avverto, con preoccupazione, che questo immutabile sta diventando sempre più fragile, nascosto. Invece la forma che le persone danno alla famiglia, alla coppia, all’educazione dei figli è assolutamente soggettiva, mondana, omologante. Non c’è l’affermazione di questo immutabile che abbiamo dentro perché non c’è la domanda sull’immutabile.

Il suo nuovo libro è dedicato al tema della domanda. Cosa c’entra la domanda con la vita di una famiglia?
Il titolo completo è: La domanda. Come vento impetuoso. L’ho scelto con l’obiettivo di “ripulire” la domanda dalla necessità della risposta. Un genitore che si fa molte domande, che non le teme, è un genitore che dà più certezza al figlio, perché produce più verità sulla vita. Il punto del genitore è che deve portare il figlio alla soglia di percepire l’infinito, deve portare il figlio alla certezza dell’eterno, a dialogare col mistero della propria vita. Se no che senso ha essere genitori? Per questo i figli adolescenti sono una risorsa grandiosa e bellissima.

Che idea si è fatta del cosiddetto divorzio breve?
Farà soffrire di più, perché non ci sono i tempi di elaborazione necessari. Pensiamo che dal punto di vista psicologico il divorzio è equiparabile a un lutto, tanto per i figli quanto per i genitori. Anche in chi decide di separarsi, perché è la perdita del proprio progetto di vita. Mi viene in mente la vedova che dopo una settimana che ha seppellito il marito dice che vuole trovarsi un uomo. Il rifiuto del dolore, che comunque è iscritto in un fatto di questo genere. Poi se dal punto di vista civile voglia dire minor spesa, questo non lo so.

Ma la famiglia è ancora attraente?
Lo è perché è inscritta dentro di noi, non è un fenomeno culturale o sociale ma universale. Mi è capitato di avere in terapia una coppia in cui lui è arrivato dicendo: “C’è qualcosa dentro di me che mi impedisce di credere fino in fondo che questo amore possa durare. Poi leggo i miei sentimenti e sono certissimo che ho una passione travolgente per mia moglie, che la amo”. A poco a poco è venuto fuori che in questa coppia la separazione dei genitori ha avuto un peso, uno strascico. E ora loro, nella loro nuova famiglia, devono fare i conti con quell’eredità. La famiglia è qualcosa che abbiamo dentro, poi l’esperienza che facciamo e la realtà che viviamo sono quelle che sono. Come uno che nasce con le gambe corte e non può fare il fotomodello, dovrà trovare un altro modo per realizzare quel suo desiderio, ma il desiderio resta sempre.

Il tradimento è cambiato?
Capita che un papà se ne vada di casa per andare a vivere con un nuovo compagno. Sono situazione complicate, in cui entrano il tradimento, il diritto di vedere i propri figli e così via. Prima di tutto viene il rispetto del bambino e della sua crescita e quindi il mio lavoro è aiutare i genitori a capire il dolore del bambino. E certamente il bambino non può rimanere estraneo alla nuova vita del padre, ma sul come, quando e a che età introdurlo si lavora. Si deve lavorare.

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