L’Iran tiene gli israeliani (e tutto il mondo) col fiato sospeso

A preoccupare davvero lo Stato ebraico è l'annunciata vendetta del regime degli ayatollah. A Gaza la situazione continua a essere tragica e nel governo di Netanyahu c'è uno scontro su come proseguire il conflitto

Proteste anti israeliane e anti americane a Teheran, Iran, 1 aprile 2024 (Ansa)

Il ramadan, il mese sacro dell’islam, è finito. Il gabinetto di guerra israeliano si è riunito per esaminare la situazione, valutare rischi e opportunità, e pianificare la strategia con cui proseguire: ma non c’è unanimità: da un lato, c’è chi vuole, a tutti i costi, qualsiasi costo, continuare la guerra fino all’eliminazione totale di Hamas (è la posizione dell’estrema destra di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, leader di Orgoglio giudaico e Sionismo religioso che minacciano di far cadere il governo nel caso venga annullato l’attacco a Rafah già annunciato da Netanyahu), dall’altro c’è chi, come il ministro Benny Gantz, cerca una strategia che tenga conto del dopo Gaza e su questa base ipotizza un’opzione militare sostenibile e condivisa con l’alleato statunitense.

Non è Gaza l’unico fronte aperto per Israele. A quanto trapela da una fonte di intelligence, a preoccupare ancora di più è il Nord, il fronte libanese, dove ci sono novantamila israeliani sfollati dall’Alta Galilea e altrettanti libanesi che hanno dovuto cercare riparo a Nord di Tiro, oltre il fiume Litani.

Guerriglia continua a Gaza

Gaza è una guerra sporca, casa per casa (o peggio: tunnel per tunnel), ma in qualche modo contenuta entro un limite militarmente delimitato. Una guerra dai contorni umanitari devastanti ma che non rappresenta più un pericolo diretto per Israele. Lo potrà essere nel futuro perché ancora nessuno ha ipotizzato un’accettabile soluzione per il “dopo”. Secondo fonti militari, Hamas ha perso il 60 per cento della sua forza militare, ma il 40 per cento che resta non è irrilevante. È in grado di combattere una guerriglia continua sul terreno, in tempi lunghi, facendosi scudo della popolazione civile e forte dell’opinione pubblica internazionale che preme su Israele perché siano rispettate le condizioni umanitarie.

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In testa ci sono gli Stati Uniti, principale alleato di Israele: il presidente Joe Biden sta facendo una pressione enorme sul presidente israeliano Benjamin Netanyahu perché apra agli aiuti. Il premier israeliano ha risposto: gli aiuti ci sono, i camion entrano, il cibo c’è, non è vero che a Gaza si muore di fame. La carestia non è colpa di Israele ma dei clan alleati di Hamas che si accaparrano le scorte per rivenderle a prezzi altissimi. Ci sono gazawi che hanno venduto tutto per un mese di cibo in scatola, non hanno più la casa, distrutta dai bombardamenti, vivono nelle tende: Israele si fa carico degli aiuti, anche per rispondere al presidente americano Biden, ma la distribuzione è caotica e in mano ai capi locali legati ai fondamentalisti.

L’ayatollah Ali Khamenei, 10 aprile 2024 (Ansa)

Nessun cessate il fuoco

La situazione di Gaza è tragica, ma la vera minaccia per la sopravvivenza dello stato ebraico arriva dall’Iran. Di questo si parla nelle riunioni della leadership israeliana ed è questo il punto che bisogna tenere presente: la storia di 75 anni di Israele è la storia di una lotta per esistere e il 7 ottobre ha segnato un punto cruciale di non ritorno.

Israele, grazie agli accordi con i paesi arabi (Giordania, Egitto, Emirati, in parte Libano – almeno sullo sfruttamento dei giacimenti di gas nel mediterraneo orientale – e soprattutto l’imminente riconoscimento reciproco e l’apertura di relazione diplomatiche con l’Arabia Saudita), stava restringendo il campo dei nemici, ma la strage del 7 ottobre ha fatto saltare il banco. Israele ha agito e continua ad agire nonostante le proteste internazionali, e gli unici attacchi militari sul suo territorio sono i lanci dei missili dal Libano da parte di Hezbollah (lanci, in qualche modo, “controllati” all’interno di un perimetro delimitato).

In sostanza: il cessate il fuoco a Gaza non è alle viste e, secondo le fonti israeliane, è proprio Hamas a non volerlo, rifiutando ogni proposta.

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Il problema sono gli ostaggi, 133 ufficialmente. Hamas rifiuta di dare i nomi e le prove che siano ancora in vita. Secondo fonti di intelligence americana, molti potrebbero essere morti. Hamas ha detto che di almeno di 40 non ha notizie perché sono in mano ad altri gruppi di miliziani (un fatto che destabilizza l’opinione pubblica israeliana e mette in difficoltà serissima il premier e l’intero governo).

Sono notizie che sbarrano la strada a qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco. Il ramadan non ha confortato il cauto ottimismo dei mediatori. Non c’è stata la tregua sperata e, in qualche modo, annunciata dal quintetto (Stati Uniti, Francia, Egitto, Emirati e Qatar) che guida gli incontri al Cairo. La proposta americana (sei settimane di tregua, alcune centinaia di prigionieri palestinesi liberati in cambio di quaranta ostaggi) è stata respinta da Hamas.

Profughi palestinesi presso Rafah, 10 aprile 2024 (Ansa)

Piano umanitario prima dell’attacco

La guerra continua anche se con un cambio di strategia: lo scenario che si presenta ora vede il ritiro delle forze israeliane dal sud di Gaza, divisa in due dal corridoio di Netzarim controllato dall’esercito, mentre un altra parte dell’esercito continua a presidiare e combattere al Nord. I militari appostati sul confine sud mostrano una visione strategica diversa rispetto a sei mesi fa: ora Israele non teme attacchi da Gaza (Hamas ha la forza di resistere a lungo, ma non di attaccare), Tel Aviv può controllare la situazione al sud tenendo l’esercito al di fuori del confine ormai blindato, e gli abitanti delle aree intorno alla parte meridionale della Striscia stanno ritornando nelle case da cui erano fuggiti i 7 ottobre. L’esercito resta invece sul terreno al Nord e si attende l’annunciato attacco di Rafah, dove più forte è la resistenza di Hamas (e lì Netanyahu non è disposto a cedere). Lì ci sono un milione e mezzo di rifugiati.

Una battaglia tra i civili in uno spazio così ristretto sarebbe una carneficina. Biden lo ha detto a Netanyahu e Israele ha risposto pubblicando un bando per acquistare 40 mila tende capaci di ospitare 12 persone l’una: significa che, effettivamente, vuole attaccare, ma prima deve spostare verso il mare una percentuale significativa di sfollati da Rafah in una zona al riparo (per quanto possibile) dai combattimenti per poi liquidare i conti.

Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha annunciato un piano umanitario prima dell’attacco: l’apertura agli aiuti del porto di Ashdod, un nuovo valico al Nord, il potenziamento delle rotte di ingresso dei tir dalla Giordania e una forza smilitarizzata sui valichi che controlli i carichi di rifornimenti e che operi con le organizzazioni internazionali. Ma tutto questo non risolve il problema degli ostaggi. E Hamas lo sa, ogni giorno di ritardo nell’offensiva di Rafah è un giorno guadagnato nella guerra psicologica.

Il leader di Hamas Ismail Haniyeh con il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdoulhian, Teheran, Iran, 26 marzo 2024 (Ansa)

Una diversa idea della vita

I costi umani che Israele è disposto a sopportare sono molti diversi da quelli messi in conto dai fondamentalisti. Mentre i parenti degli ostaggi sono in piazza a Tel Aviv e a Gerusalemme per chiedere di salvare i loro cari, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, dal Qatar «ringrazia Dio» per la morte di tre dei suoi figli e due nipoti in un bombardamento a Gaza, proprio durante gli ultimi giorni di ramadan, la festa di Eid al Sidr. «Sono martiri – ha detto -. Ora Israele non otterrà nulla dai negoziati». Dichiarazioni che segnano una ben diversa visione della vita, della morte e della guerra. Ciò che per ogni israeliano è dolore per una incolmabile assenza, la perdita di una vita irripetibile, per il combattente fondamentalista è una benedizione di Allah, il premio del martirio nella jihad.

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Un quadro in cui è sempre più difficile pensare a costruire il futuro di una Gaza non controllata né da Hamas né da Israele e neppure in preda all’anarchia: qualcuno dovrà prendersi carico del governo e del controllo della Striscia, e non vogliono farlo gli israeliani. Una situazione che non piace (per usare un eufemismo) agli americani. Biden non vuole massacri: vuole il cessate il fuoco, ma non ha modo di fare pressione su Hamas. Potrebbe tentare con l’Egitto, minacciando la sospensione dei finanziamenti promessi (si dice siano 17 miliardi di dollari) e soprattutto sul Qatar, grande difensore di Hamas (gli Stati Uniti hanno una potente base militare nella capitale Doha).

Una ferita aperta

Ma il fronte è ben più vasto. Il gabinetto di guerra, mentre esamina la situazione di Gaza, deve tener conto di un pericolo maggiore, ed è la promessa iraniana di vendicare gli attacchi in Siria e l’uccisione dei capi delle Guardie rivoluzionarie a Damasco, tra cui il generale Reza Mussawi, attacco per il quale Teheran ha giurato vendetta. Ma non si sa come agirà né quando: è una minaccia che incombe su tutto l’Occidente, ovunque ci siano obiettivi riconducibili ad Israele e ai suoi alleati. L’intelligence Usa ipotizza il lancio di droni da Siria, Libano, Yemen, Iraq, ma anche possibili attentati in America, Europa, Africa e Asia contro sinagoghe o rappresentanze diplomatiche.

È questa la guerra che Israele teme di più: Hezbollah dispone di armi molto più potenti di Hamas e un’invasione del Libano sarebbe estremante rischiosa. È la guerra che metterebbe in pericolo l’intero Stato ebraico, che impedirebbe il ritorno degli abitanti dell’Alta Galilea, che costringerebbe Israele a nuove trattative internazionali per definire la questione sempre più precaria dei territori e degli insediamenti dove vivono ottocentomila coloni. Trattative che vedrebbero lo Stato ebraico in una posizione di maggior debolezza con alleati più tiepidi nel sostenerlo. Hamas non tornerà a governare Gaza, ma la carneficina del 7 ottobre è una ferita dolorosa e non solo per Israele. Una ferita che Hamas vuole tenere aperta, sapendo bene di essere la punta della lancia dei nemici di quella che per i fondamentalisti è solo un’“entità sionista”, non uno Stato con il diritto ad una esistenza propria.

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