I riformisti del Pd non possono arrendersi alla non-strategia di Elly Schlein

La segretaria del Partito democratico Elly Schlein ospite del programma di La7 Piazza pulita (foto Ansa)

Su Dagospia si riprende la lettera di Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini pubblicata da La Repubblica dove si scrive: «La segretaria Schlein ha pieno diritto di tentare di realizzare la piattaforma politico-culturale e programmatica con cui ha vinto il congresso. Noi, che abbiamo limpidamente avversato quella piattaforma, mettendo in evidenza il rischio di un regresso verso un antagonismo identitario incoerente con la natura stessa del Pd come partito a vocazione maggioritaria, abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di far vivere (e di far percepire all’esterno del partito) una visione, una cultura politica e una proposta programmatica distinta e, per molti aspetti, alternativa a quella di Schlein».

Dopo la dura sconfitta ai ballottaggi del 28-29 maggio, dopo che si è costatato come il Pd stia perdendo anche quell’insediamento locale che gli consentivano le vecchie reti di ex Pci ed ex Dc, è evidente la necessità di un confronto che non sia solo tattico o retorico o rivolto ad occupare questo o quel posto di potere, ma che affronti i nodi di fondo di quella che può essere una sinistra in Italia. E c’è bisogno che chi si oppone a una deriva movimentista, e nei fatti subalterna ai 5 stelle, nel Pd, prenda posizione non solo nel partito ma nella società e di fronte all’opinione pubblica su giustizia, riforme istituzionali, politica estera, riforma dell’Unione Europea, politiche del lavoro, rapporto tra necessarie scelte ambientaliste e sviluppo. Su questi e altri temi c’è bisogno da parte dei riformisti “dem” non solo di discussione ma anche di un’iniziativa, pure esterna.

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Su Formiche Chiara Masi scrive: «Soltanto ieri, dopo la sconfitta alle regionali, la leader dem Elly Schlein aveva detto, in una diretta Instagram, che “togliere i fondi dai nidi per metterli sulla produzione di armamenti per noi non è accettabile”. Ma oggi il Partito democratico si è spaccato sull’approvazione dell’intero pacchetto. La maggioranza della delegazione ha seguito la linea del sì. Otto quelli a favore: il capo delegazione Brando Benifei, Mercedes Bresso, Beatrice Covassi, Paolo De Castro, Elisabetta Gualmini, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Daniela Rondinelli, Irene Tinagli e Patrizia Toia. Sei gli astenuti: Pietro Bartolo, Camilla Laureti, Franco Roberti e Achille Variati. Contrario invece Massimiliano Smeriglio, che è stato eletto come indipendente nel Partito democratico».

Come si sa, la politica estera è elemento decisivo nella definizione di un soggetto politico, invece c’è chi nel Pd discute di alleanze con i cinquestelle senza tener conto di come Giuseppe Conte e Beppe Grillo abbiano costruito un rapporto con Pechino che determina la loro linea politica, e ciò in gran parte d’intesa con un Romano Prodi e un Massimo D’Alema che esercitano ancora una grande influenza sui “dem”.

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Su Startmag Claudio Negro scrive: «È una mutazione genetica del sindacato, che sceglie di uscire dalla dialettica capitale-lavoro, nella quale lo Stato ha un ruolo di mediazione e, ove necessario di incentivazione-disincentivazione, per accedere ad un rapporto diretto con il potere politico, cui viene richiesto di recepire le rivendicazioni e tradurle in normative. In questo modo si preclude la strada alle politiche di concertazione, che ovviamente devono vedere governo e parti sociali in condizioni di sostanziale parità e libertà di scelta, e si attribuisce alla politica il potere di sostituirsi al negoziato nella gestione delle relazioni industriali. Con l’ovvia conseguenza che queste possano cambiare di segno a seconda del mutare della maggioranza di governo, e che perciò il sindacato venga sempre più coinvolto nelle dinamiche della politique politicienne. Cosa del resto di cui già si intravedono le avvisaglie: i segretari generali nei loro comizi dipingono un’offerta politica globale, riassunta nel “nuovo modello di sviluppo” che tutto ricomprende, dal clima alla pace, senza dire nulla che vada al di là della declamazione. Ma per certe cose c’è già la Schlein, non c’è bisogno che il sindacato si costituisca in partito».

Nella evidente confusione strategica che la caratterizza, ogni tanto Elly Schlein allude alla Cgil come al suo grande cavaliere bianco (rosso?) che la salverà indicando una prospettiva al mondo del lavoro tale da limitare la crescente influenza della destra tra i ceti popolari. Il problema è che il più grande sindacato italiano ha una difficoltà a fare scelte strategiche pari a quella del Pd.

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Su Affaritaliani Giuseppe Vatinno scrive: «Dunque non meraviglia più di tanto la legnata ricevuta dal Pd da Zuppi, che ha dichiarato: “È sbagliato contrapporre o separare valori etici e valori sociali. Sono la stessa cultura della vita che sgorga dal proprio volere soggettivo che arriva a giustificare la cosiddetta maternità surrogata, che utilizza la donna, spesso povera, per realizzare il desiderio altrui di genitorialità”».

Probabilmente la Schlein non si è neanche accorta dell’irritazione che stava suscitando, con le sue prese e “non” prese di posizione sulla maternità surrogata, nella Chiesa italiana, anche in personalità così disposte al dialogo come il presidente della Cei, il cardinale Matteo Maria Zuppi. È grave commettere un errore politico, ma è ancora più grave non accorgersi neanche di averlo commesso.

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