«Così io, cattolico, insegno ai musulmani delle banlieue la laicità. Quella vera»

Intervista a Jean-François Chemain, che ha lasciato un posto di direttore esecutivo in una delle più importanti aziende francesi per insegnare storia nelle scuole dei quartieri difficili di Lione

«I miei studenti sono praticamente tutti musulmani, a scuola c’è un proselitismo invadente, non amano la Francia e non capiscono la laicità. Io vorrei trasmettere loro il mio amore per questo paese ma lo Stato non mi aiuta di certo». Jean-François Chemain non è un professore come gli altri. Per insegnare storia in una scuola pubblica nella banlieue di Lione, ha lasciato un posto da direttore esecutivo della Edf, la maggiore azienda produttrice e distributrice di energia in Francia, dopo una vita passata a lavorare come consulente in società del calibro di Ernst & Young e Deloitte. In un momento in cui il governo socialista francese si interroga su come arginare il fenomeno dell’islamismo radicale, molto forte tra i banchi di scuola, e risponde con lo slogan della laicità, Chemain offre a tempi.it una risposta diversa, che passa attraverso la verità e il rapporto personale con gli studenti.

Professor Chemain, dove insegna?
In una Zona di educazione prioritaria (Zep) nella banlieue di Lione. Si tratta di scuole che a causa di difficoltà particolari del quartiere, soprattutto economiche e sociali, dispongono di mezzi aggiuntivi per quanto riguarda organico, materiale scolastico…

Quali sono le principali difficoltà che incontra in aula?
I miei studenti, che hanno tra gli 11 e i 15 anni, sono per la stragrande maggioranza, in certe classi direi la quasi totalità, musulmani. O di origine, o perché sono nati da matrimoni “misti”. Questo pone soprattutto tre problemi.

Quali?
Il primo è un proselitismo invadente, di cui anch’io stesso sono oggetto, e che non fa sentire i non musulmani a loro agio. Alcuni addirittura si mostrano fedeli alla religione della maggioranza solo per avere un po’ di pace. Tanti, ed è il secondo problema, si rifiutano di definirsi come “francesi”, anche se hanno la nazionalità francese, in virtù dell’equazione “francese=cristiano” e, di conseguenza, “musulmano=non francese”.

Il terzo problema?
È una cultura di contestazione dell’insegnamento nel nome di valori e pregiudizi delle comunità di provenienza. Per esempio, alla fine di un corso di Educazione civica sulla laicità, uno studente ha concluso dicendo che tutto quello che si era detto andava bene, ma che niente poteva cambiare il fatto che una sola religione detenesse la verità. Quando gli ho detto che la Repubblica garantiva il diritto di cambiare religione, gli studenti mi hanno immediatamente proposto di farlo. Gli ho risposto che questo si doveva intendere nei due sensi, e cioè che anche un musulmano poteva cambiare religione: questa affermazione ha provocato uno scoppio di risa in classe…

I suoi studenti sono tra quelli che hanno inneggiato agli attentatori di Charlie Hebdo?
Ci tengo subito a precisare che i miei alunni sono stati molto rispettosi quel giorno, senza dubbio perché io avevo precisato che, senza giustificare gli attentati, potevo capire che un credente si sentisse ferito dalla moltiplicazione di caricature che insultano la sua fede. Di colpo il dibattito si è calmato. Ma non per questo hanno usato lo slogan “Je suis Charlie”. Loro hanno vissuto le caricature di Charlie Hebdo come “islamofobe”, anche se i cristiani sono attaccati molto più spesso da questo giornale rispetto ai musulmani. Ma di questo loro non hanno coscienza.

Oltre a Kiffe la France (Amo la Francia), lei ha pubblicato un libro intitolato: Un’altra storia della laicità. Perché?
Per molti in Francia la laicità è la conquista da parte dello Stato repubblicano di una libertà rispetto alla Chiesa, che sarebbe di conseguenza obbligata a stare zitta su tutto ciò che riguarda la società e la politica. Io ho scritto un libro perché per me la laicità è l’esatto opposto.

Cioè?
Storicamente, lo Stato ha sempre avuto la tendenza ad auto-sacralizzarsi, specie a Roma, culla della nostra cultura giuridica e politica. La religione allora era strettamente connessa al potere. Il capo di Stato deteneva la potestas e l’imperium a causa della sua legittimità politica, ma solo la religione poteva conferirgli l’auctoritas (la forza divina). I cristiani sono i primi ad aver messo in discussione tutto questo e l’hanno fatto perché erano gli unici ad essere perseguitati. Quando l’Impero romano è diventato cristiano, ha immediatamente cercato di far rientrare la Chiesa nella sua concezione, mettendola a suo servizio.

La Chiesa non si è sempre lamentata.
Una parte del clero ha approfittato di questa confusione ma è sempre rimasta una tensione tra i poteri politici “cristiani” e la Chiesa, desiderosa di conservare la sua indipendenza. La preoccupazione era sempre l’auctoritas. La Chiesa è riuscita infine a vincere questa battaglia, ritrovando la sua piena indipendenza rispetto allo Stato, ma lo Stato non ha rinunciato a sacralizzare il suo potere. Da qui la pretesa di molti, in Francia, di creare sotto il nome di “laicità” una vera e propria “religione repubblicana”.

Cosa pensano i suoi studenti della laicità?
I miei studenti non possono neanche capirla. Prima di tutto perché l’islam non conosce la nozione di laicità: l’islam infatti non è sacralizzazione del politico, ma politicizzazione del religioso, la confusione inversa. In secondo luogo perché, a mio parere, non è possibile insegnare idee false, cosa che invece avviene quando si è costretti a insegnare la versione ufficiale della laicità. Ci si potrebbe riuscire solo essendo autoritari: “È così e non altrimenti, obbedite”. Un’ideologia non ha bisogno di essere creduta, è sufficiente che venga detta. Il problema è che questo atteggiamento non può funzionare in una società che ha ucciso l’autorità. È per cercare di ritrovare un discorso giusto e veritiero che ho scritto il mio libro sulla laicità.

Perché i giovani musulmani delle banlieue non amano la Francia?
I miei studenti non amano la Francia spontaneamente: non è il loro paese di origine, pochissimo li lega ad esso, e molti sono pieni del risentimento delle loro comunità contro la colonizzazione, lo schiavismo, il cosiddetto razzismo dei francesi. Bisogna aggiungere che il nostro sport nazionale è il rimorso: non esistono mali di cui non saremmo responsabili… Difficile farsi amare in queste condizioni! Quindi, come un franco tiratore, cerco di far progredire alcuni studenti, che in fondo hanno bisogno anche loro di amare. La filosofa Simone Weil scriveva: «Bisogna dare ai giovani qualcosa da amare. E quel qualcosa è la Francia». Questi giovani, ne sono certo, hanno il desiderio di amare e sono frustrati dal fatto che questo paese, per orgoglio, creda di non averne bisogno. Io so per esperienza che la relazione di amicizia e fiducia privilegiata che sono riuscito a costruire con loro mi permette di far passare molto. E mi dispiace che, in quanto funzionario dello Stato, lo Stato stesso non mi chieda di utilizzare questo credito per far amare il mio paese.

Che cosa intende?
Gli studenti hanno bisogno di essere stimati da un adulto. Il semplice fatto di scoprire in loro una qualità e di dirglielo, li trasforma. Purtroppo il sistema scolastico francese è estremamente normativo, per cui anche le qualità che si scoprono negli alunni sono molto difficili da valorizzare. Ho in mente un mio alunno molto difficile che è cambiato semplicemente quando ho sottolineato che aveva un grande talento comico, che lui esercitava spesso a mio discapito.

Non basta insomma leggere la “Carta della laicità”?
Siamo alle formule magiche. Come se un testo affisso all’entrata della scuola potesse cambiare qualcosa nella mentalità profonda di questi giovani, che sono certi di avere ragione e che vivono in comunità che di pomeriggio decostruiscono quello che noi abbiamo cercato di trasmettere loro al mattino. Basta ricordare la reazione di cui ho parlato prima dopo il corso sulla laicità! Bisogna anche dire che gli insegnanti sono troppo prudenti nel non dire mai niente che possa ferire le orecchie dei musulmani, perché qualunque parola male interpretata può essere attaccata come “islamofobia”, con il rischio di non essere più sostenuti dalla gerarchia. Ci si autocensura di continuo!

Se la laicità non funziona, su che basi si può costruire l’integrazione?
Per me la vera integrazione è un’adesione totale, senza riserve, ai valori nazionali che sono, che lo si voglia o no, di origine cristiana. L’immigrazione originaria dai paesi cristiani è senza dubbio meno problematica da questo punto di vista. La presenza sempre più numerosa nei nostri paesi di persone cresciute in altre culture è una sfida enorme, dal momento che queste culture sono innervate di altri valori rispetto a quelli del Vangelo. Io constato a scuola che differenze importanti esistono su molti punti. Alcune di queste persone, ne conosco molte, scelgono di diventare cristiane, ma sono poche. Per gli altri, il punto è capire se noi possiamo integrarli, ed è quello che spero, o se saranno loro a integrare noi, ed è quello che osservo. Il giorno dell’attentato contro Charlie Hebdo, due studenti di origine europea (se non “cristiani”) mi hanno detto che [i terroristi] avevano «fatto bene» perché «non si insulta il Profeta».

Lei ha 54 anni e non ha sempre insegnato. Chi gliel’ha fatto fare?
Ho lasciato il mio lavoro da direttore esecutivo a 44 anni, perché la mia coscienza politica e religiosa mi diceva che la vera battaglia per me non era là. All’inizio, sapevo solo che volevo insegnare Storia ai giovani, poi la Zep è diventata per me un’evidenza: volevo trasmettere il mio amore per la Francia ai giovani di questi quartieri.

In un’intervista a una radio francese ha dichiarato: «Ho anche avuto un’esperienza di conversione molto forte intorno ai trent’anni». Vuole raccontare qualcosa di più?
Ho ricevuto un’educazione cattolica, ma ho vissuto molto male la crisi della Chiesa francese all’inizio degli anni Settanta. Mi sono ribellato alla Chiesa e non ho più messo piede a Messa per un po’ di tempo. Un giorno, visto che passavo il week-end a casa di amici che praticavano ancora regolarmente, mi sono sentito obbligato ad accompagnarli a Messa. Era una di quelle chiese moderne e brutte di Avignone, tenuta da una comunità nuova che mi è apparsa piuttosto folcloristica. Si poteva scrivere un’intenzione di preghiera su un foglio di carta e la comunità andava a deporlo davanti al Santissimo Sacramento esposto. Io ho solo scritto in tono di sfida: “Se esisti, allora manifestati!”. Il mercoledì mattina, quando mi sono svegliato, credevo. È come se i miei occhi si fossero aperti, riuscivo a riconoscere la Sua presenza dappertutto nella mia vita. È un po’ difficile da spiegare ma Gesù abitava in me e dopo vent’anni non mi aveva lasciato. E oggi continua a fare parecchi miracoli per me.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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