«Basta col Pd dei capibastone», disse la candidata Pd appoggiata dai capibastone

La candidata alla segreteria del Pd Elly Schlein con Andrea Orlando alla presentazione romana del libro di Goffredo Bettini A sinistra, 17 gennaio 2023 (foto Ansa)

Su Huffington Post Italia si scrive: «“I bonus edili sono stati un’esagerazione, che ci fosse un problema nel provvedimento originario era chiaro a tutti”. In un’intervista al Corriere della Sera l’economista e senatore in quota Pd Carlo Cottarelli precisa di parlare a titolo personale. Ma non esita a schierarsi in modo netto: “Premesso che parlo a nome mio e non del Pd, dato che tra l’altro non sono iscritto. La mia risposta è sì, il governo ha fatto bene. Un bonus al 110 per cento che poteva essere utilizzato con la cessione è una modalità troppo generosa e troppo costosa per lo Stato. Su mia iniziativa la commissione Finanze del Senato ha avviato un’indagine conoscitiva sui crediti di imposta. Prime evidenze? È prematuro e preferisco non anticipare niente”».

Ecco uno spunto di spirito repubblicano che, se trovasse un seguito, aiuterebbe a fare dell’Italia un paese migliore.

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Su Fanpage si riportano le seguenti affermazioni di Elly Schlein: «Basta con i capibastone, basta con i pacchetti di tessere. Voglio guidare un partito in cui nessuno si senta più padrone delle persone».

Parole particolarmente credibili da parte di una candidata alla segreteria del Pd appoggiata da uomini scevri da qualsiasi tentazione di potere personale come Dario Franceschini, Andrea Orlando, Goffredo Bettini, Francesco Boccia e altri simili innocenti e puri angioletti.

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Su Startmag Francesco Damato scrive: «L’ancòra Giornale della famiglia Berlusconi dà oggi per “chiuso” l’incidente dopo un incontro di Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vice del presidente di Forza Italia, che tuttavia non è riuscito a fare revocare la rinuncia al summit di Napoli. Del resto, l’insospettabile Verità di Maurizio Belpietro, di area orgogliosamente di centrodestra, oggi titola su un “Berlusconi umiliato”, passato “da vero statista ad appestato”, anzi “stritolato”, dal “dogma” dell’appoggio a Kiev. Del caso per niente chiuso si occupa su Repubblica nel suo editoriale il direttore Maurizio Molinari in persona, sottolineando i problemi di credibilità e quant’altro dell’Italia creati da Berlusconi alla Meloni in procinto della sua visita a Kiev. Dove Zelensky, come potrebbe accadere oltre oceano quando la Meloni vi andrà, potrà chiederle chiarimenti e garanzie di tenuta dell’Italia sul fronte contrario alle mire espansionistiche di Putin. Un fronte che è diventato per Berlusconi il classico tallone d’Achille: lui, così a lungo fideisticamente europeista e atlantista».

Che cosa è successo al Silvio Berlusconi che conoscevamo, così attento a essere in sintonia con l’anima moderata dell’Italia? E, poi, che cosa è successo a un giornalista così preparato e intelligente come Molinari, che sembra ormai così in preda a un’incontrollata ossessione antimeloniana da non cogliere la sintonia tra il presidente del Consiglio italiano e il presidente ucraino?

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Su Formiche Giulio Sapelli dice: «Ma certo. In questi anni abbiamo ceduto, in virtù di quel memorandum, quote di aziende strategiche alla Cina. Invece dovremmo tornare all’Italia di Giulio Andreotti e Aldo Moro: alleati degli americani e con un ruolo propulsivo verso i paesi arabi. Non certo verso la Cina. Peraltro segnalo che è molto grave il fatto che si sia ricevuto un dirigente del Partito comunista cinese al Quirinale: la diplomazia ha bisogno di segretezza e un summit del genere non sta in nessun protocollo».

Come ho già diverse volte osservato nelle mie “preghiere”, il ruolo del presidente della Repubblica in Italia ha un qualche elemento di ambiguità: non è il capo di uno Stato presidenzialista, ma non ha neanche solo quelle funzioni da notaio che i capi di Stato (anche quelli eletti direttamente come in Austria e Portogallo, e pure i monarchi) hanno nei regimi parlamentari europei. Una certa ambiguità del ruolo dell’inquilino del Quirinale è espressione di una Costituzione figlia della Guerra fredda, con un Parlamento dove la sinistra filosovietica aveva un ruolo consistente, e dove il capo dello Stato riequilibrava (innanzi tutto in politica estera) eventuali condizionamenti troppo stringenti del Parlamento. In realtà, poi, un presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, eletto anche con il voto del Pci e del Msi (nonché molto stimato dall’Eni di Enrico Mattei), polemizzò verso la fine degli anni Cinquanta con il ministro degli Esteri Antonio Segni, perché volle prendere una sua iniziativa autonoma verso Mosca: e, tra l’altro probabilmente queste contrapposizioni non furono estranee alle tensioni che l’Italia visse tra il luglio ’60 e il 1964. Non è male ricordare queste vicende per riflettere sui nostri assetti istituzionali attuali, non più condizionati dalla Guerra fredda (le influenze russe e cinesi di oggi non sono paragonabili a quelle pre-caduta del muro di Berlino). Forse, studiando naturalmente tutti i pesi e contrappesi che in una liberaldemocrazia sono sempre fondamentali, mettere un po’ d’ordine nelle funzioni apicali della Repubblica non sarebbe un male.

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