Onu: «Uiguri vittime in Cina di crimini contro l’umanità»

L'alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha rilasciato un rapporto sulla persecuzione degli uiguri, soggetti a detenzione forzata e torture. Pechino protesta: «Falsità»

Michelle Bachelet, alto commissario Onu per i diritti umani, ha mantenuto la sua promessa per una questione di 11 minuti: aveva a più riprese dichiarato che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) avrebbe reso pubblico un rapporto sulla condizione degli uiguri in Cina prima della scadenza del suo mandato a capo dell’ufficio, fissata alla mezzanotte del 31 agosto. Il rapporto (di 45 pagine) è stato rilasciato alle 23.49 del 31 agosto, ora di Ginevra. Contemporaneamente lo stesso ufficio ha diffuso un controrapporto ufficiale del governo cinese (di 121 pagine) che smentiva i contenuti di quello Onu…

«In Cina crimini contro l’umanità»

I contenuti del documento dell’Ohchr sono più o meno quelli che tutti si aspettavano e che Pechino temeva. L’alto commissario afferma di avere le prove che contro gli uiguri sono state compiute violazioni dei diritti umani, con l’approvazione delle autorità, che potrebbero costituire crimini contro l’umanità: «La portata della detenzione arbitraria e discriminatoria di membri dell’etnia uigura e di altri gruppi prevalentemente musulmani, ai sensi della legge e della politiche ufficiali, nel contesto di restrizioni e privazione più in generale dei diritti fondamentali goduti individualmente e collettivamente, può costituire crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità».

Ha scritto il Guardian, quotidiano londinese, nel suo commento al rapporto: «Negli ultimi cinque anni, la Cina ha concentrato circa 1 milione di Uiguri e di appartenenti ad altre minoranze etniche in campi di internamento che ha definito centri di formazione. Da allora alcuni centri sono stati chiusi, ma si pensa che ci siano tuttora centinaia di migliaia di persone ancora incarcerate. In diverse centinaia di casi le famiglie non avevano idea della sorte dei parenti detenuti».

Dei 26 ex detenuti intervistati dagli investigatori delle Nazioni Unite, continua il quotidiano, «due terzi “hanno riferito di essere stati sottoposti a trattamenti che equivarrebbero a tortura e/o altre forme di maltrattamento”. Gli abusi descritti includevano percosse con bastoni elettrici mentre erano legati a una “sedia della tigre” (attrezzo dove mani e piedi sono bloccati da anelli di ferro – ndt), isolamento prolungato, così come quella che sembrava essere una forma di waterboarding: “essere sottoposti a interrogatorio mentre veniva versata loro in faccia dell’acqua”».

Uiguri sottoposti a controllo delle nascite

Il documento conferma anche una delle accuse più oltraggiose rivolte alla Cina: quella di avere usato la forza e l’inganno per produrre una riduzione delle nascite presso la minoranza uigura. Si legge a pagina 35: «Numerose donne intervistate dall’Ohchr hanno sollevato accuse di controllo forzato delle nascite, in particolare inserzioni forzate di Iud (dispositivi intrauterini anticoncezionali – ndt) e possibili sterilizzazioni forzate ai danni di donne uigure e di etnia kazaka. Alcune donne hanno parlato del rischio di dure punizioni tra cui “internamento” o “incarcerazione” per violazioni della politica di pianificazione familiare».

Tra queste, «l’Ohchr ha intervistato alcune donne che hanno affermato di essere state costrette ad abortire o ad inserire degli Iud dopo aver raggiunto il numero di figli consentito dalla legge in base alle politiche di pianificazione familiare. Questi resoconti di prima mano, sebbene in numero limitato, vengono considerati credibili». Le stesse statistiche ufficiali rendono noto che, mentre nella Cina nel suo insieme si registrano 32 interventi di sterilizzazione ogni 100 mila abitanti, nello Xinjiang, dove vivono 13 milioni di musulmani (di cui quasi 12 milioni di etnia uigura), se ne contano 243 ogni 100 mila abitanti.

La Cina nega tutto: «Falsità e calunnie»

La missione permanente della Cina presso l’Onu ha reagito dichiarando che il report sarebbe «basato su disinformazione e falsità fabbricate da forze anticinesi» e che esso «calunnia e diffama arbitrariamente la Cina». In particolare il controrapporto cinese asserisce che il sistema dei centri di educazione e formazione professionale (Vetc), dove si praticherebbe la “deradicalizzazione” degli estremisti, rappresenta una risposta perfettamente legittima che ha permesso di contrastare il terrorismo nella regione, e non sarebbe una forma di carcerazione.

L’Ohchr ha raccolto numerose prove che confermano che la partecipazione ai centri non è libera, ma in realtà coincide con un imprigionamento: «Resoconti coerenti ottenuti dall’Ohchr indicano una mancanza di consenso libero e informato all’inserimento nei centri; che è impossibile per un individuo detenuto in un centro così pesantemente sorvegliato andarsene di propria spontanea volontà; e che un soggiorno in una struttura Vetc è, dal punto di vista dell’individuo interessato, di natura indefinita, la fine di esso essendo determinata solo dal rispetto di criteri non definiti ma il cui adempimento è valutato solo dalle autorità. Perciò, dato che il collocamento nelle strutture Vetc non è volontario e le persone collocate in tali centri non hanno apparentemente avuto scelta, i collocamenti in strutture Vetc equivalgono a una forma di privazione della libertà».

I collocamenti nei Vetc, prosegue il rapporto, «sembrano mancare dei caratteri del dovuto processo in qualsiasi contesto di detenzione, privando di fatto le persone interessate delle tutele e delle garanzie che devono accompagnare le detenzioni a norma del diritto internazionale. I detenuti sembrano non avere accesso ad avvocati o non essere informati della durata del loro internamento o dei criteri per il loro rilascio, che non sono esplicitati dalla legge». Queste asserzioni sono fondate sulle dichiarazioni di un certo numero di ex detenuti intervistati dall’Ohchr.

Il rapporto pubblicato in ritardo

Il documento Onu non ha invece fatto proprie le accuse di “genocidio” che negli ultimi cinque anni vari paesi occidentali (fra essi soprattutto Stati Uniti, Regno Unito e Canada) avevano formulato nei riguardi della politica cinese nello Xinjiang. Questi stessi governi, insieme a varie Ong di diritti umani, oggi chiedono che sulla base di questo rapporto l’Onu apra un’inchiesta formale sugli abusi contro i diritti umani nello Xinjiang da parte del governo cinese.

La pubblicazione del rapporto non ha messo fine alla polemica iniziata l’anno scorso, quando era apparso che l’ufficio della Bachelet stava ritardando la divulgazione di un testo già pronto da tempo a causa delle pressioni del governo cinese. L’alto commissario si è difeso affermando che la pubblicazione è stata più volte rinviata perché il governo cinese forniva periodicamente nuova documentazione, che doveva essere esaminata e tenuta in considerazione in vista della stesura definitiva del rapporto. Pochi accettano questa spiegazione.

David Kaye, un ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di parola, ha affermato che il ritardo nella pubblicazione del rapporto è «condannabile e merita un rendiconto completo». Courtney Fung, un membro non residente del think tank Lowy Institute, ha affermato che la Cina potrà gestire comodamente gli attacchi contro di lei suscitati dal rapporto, perché esso è stato pubblicato meno di quindici giorni prima dell’ultima sessione del Consiglio per i diritti umani del 2022, e senza che sia stato ancora annunciato il nome del successore della Bachelet.  «Non c’è parità di condizioni nell’ambito dell’Onu. L’ascesa della Cina nel sistema delle Nazioni Unite e la sua posizione nel Consiglio di sicurezza con potere di veto influenzano qualsiasi discussione sulle sue responsabilità», ha affermato.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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