Mostra un dipinto di Maometto e viene licenziata dall’università americana

Una docente di storia dell'arte mostra una raffigurazione del profeta, gli studenti musulmani s'infuriano, la Hamline University le toglie il lavoro accusandola di islamofobia. Ma gli studiosi (anche islamici) la difendono. E il caso diventa nazionale

Il dipinto di Maometto di Rashid al-Din mostrato alla Hamline University

Erika López Prater, docente a contratto presso la Hamline University, in Minnesota, sapeva bene che era necessario prendere una serie di precauzioni prima di mostrare agli studenti del suo corso di arte una raffigurazione del profeta Maometto. Non una vignetta di Charlie Hebdo, bensì un dipinto medievale riportato nel “Compendio di cronache”, la storia illustrata del mondo scritta nel XIV secolo da Rashid-al-Din. Un dipinto canonico, studiato spesso nei corsi d’arte, ospitato dall’Università di Edimburgo, analogo ad altri già esposti al Metropolitan Museum of Art, che mostra l’angelo Gabriele che consegna al profeta Maometto la prima rivelazione coranica. Un dipinto considerato da molti studiosi un “capolavoro”.

Mostra un dipinto di Maometto e viene licenziata

Quando dunque lo scorso semestre Erika López Prater decise di mostrarlo in classe insieme a un’altra immagine del profeta del XVI secolo e altre ancora di altre religioni, si premurò di inserire l’informazione nel programma e avvisare per tempo i suoi studenti. Spiegò loro che per qualunque dubbio avrebbero potuto contattarla e discuterne. Non ricevendo alcuna risposta la docente preparò la lezione. Una volta in classe spiegò ai ragazzi che a breve avrebbe mostrato il dipinto e se qualcuno per motivi religiosi non desiderava vedere la raffigurazione del profeta, poteva lasciare l’aula. Nessuno si alzò. Erika López Prater mostrò dunque il dipinto e fu licenziata.

Quello della professoressa della piccola università privata frequentata da 1.800 studenti, votata allo studio delle “arti liberali” non è più il “caso della Hamline Universiy”, ma un caso nazionale che vede contrapporsi i sostenitori della libertà accademica e di parola con i musulmani per i quali mostrare l’effige di Maometto è sempre sacrilegio e nello specifico islamofobia e perfino razzismo.

La sensibilità dei musulmani vale più della libertà accademica

La miccia è stata accesa da una studentessa sudanese, Aram Wedatalla, presidente della Muslim Student Association, che ha inviato mail a preside, funzionari della scuola, giornale degli studenti dicendosi scioccata, «come musulmana e come persona di colore, non mi sento di appartenere e non penso che apparterrò mai a una comunità in cui non mi apprezzano come membro e non mostrano lo stesso rispetto che mostro loro». Apriti cielo. In capo a pochi giorni i dirigenti dell’ateneo avevano inviato mail di scuse a tutti gli studenti, il preside si batteva il petto sostenendo che «il rispetto per gli studenti musulmani avrebbe dovuto sostituire la libertà accademica», «Guardare un’immagine del profeta Maometto, per molti musulmani, è contrario alla loro fede», «Era importante che i nostri studenti musulmani, si sentissero al sicuro, sostenuti e rispettati dentro e fuori le nostre aule».

La storia – che ricalca ancora più tristemente quella di molti altri accademici espulsi dagli atenei perché invisi a studenti attivisti o contrari ai sussulti woke – è stata ricostruita pochi giorni fa dal New York Times che non ha mancato di intervistare numerosi storici dell’arte e sostenitori della libertà di parola (per PEN America ci troviamo davanti a «una delle violazioni più eclatanti della libertà accademica nella storia recente»), anche tra i musulmani, che si sono scagliati contro l’università, chi per difendere la docente licenziata, chi per attaccare un’amministrazione che ha diviso la comunità islamica, all’interno della quale non tutti condividono le restrizioni sulle rappresentazioni rispettose del profeta.

«Vada a insegnare alla biblioteca locale»

Quattro giorni dopo la lezione, López Prater è stata convocata a un incontro video con la decana del college di arti liberali, Marcela Kostihova che ha paragonato la sua lezione all’utilizzo di epiteti razziali nei confronti dei neri. David Everett, Associate Vice President of Inclusive Excellence dell’università ha annunciato l’istituzione di un forum aperto «sul tema dell’islamofobia» dopo il carico di azioni «innegabilmente sconsiderate, irrispettose e islamofobe» portate avanti dalla docente. Questo nonostante l’università le avesse già tolto l’insegnamento nel semestre successivo.

Nel corso del forum la studentessa Wedatalla ha raccontato piangendo cosa ha provato vedendo quell’immagine, parlando di «mancanza di rispetto» e «offesa» della sua religione. Molte studentesse nere hanno fatto eco alle sue accuse raccontando in lacrime la loro lotta per adattarsi all’Hamline accusando l’università di omaggiare la diversità a parole senza sostenere con le proprie risorse gli studenti vittime di incidenti razzisti. Se l’università crede nella diversità «non possono accadere incidenti come questo. Se qualcuno vuole insegnare qualcosa di controverso sull’Islam, vada a insegnarlo alla biblioteca locale», ha tuonato il relatore principale, Jaylani Hussein, direttore esecutivo della sezione del Minnesota del Council on American-Islamic Relations.

«Come dire che Hitler era buono».

La situazione è precipitata quando Mark Berkson, presidente del dipartimento di religioni dell’università, stufo di sentire paragonare il gesto della docente («mostrare un capolavoro di arte islamica in un corso di storia dell’arte dopo aver dato molteplici avvertimenti») agli attentati alle moschee, alla violenza contro i musulmani e all’incitamento all’odio, ha alzato la mano ricordando che moltissimi esperti e storici dell’arte musulmani non condividevano le accuse di islamofobia alla docente. Stizzita la risposta di Hussien, che ha allora paragonato il gesto dell’insegnante a tenere lezioni sul fatto che «Hitler era buono».

«L’establishment culturale americano sull’Islam si comporta come i sauditi (che pagano bene)», ha commentato Giulio Meotti ripercorrendo in una perfetta puntata della sua newsletter l’assurda parabola tutta autocensura e contorsioni linguistiche sui musulmani in voga fra editori, giornali, musei, televisioni e ora università. C’è tutto nel titolo, “Odiare il Cristianesimo e sottomettersi all’Islam, il capolavoro del dhimmi liberal”, «vigono le “regole di Ratisbona” e del Papa che su Maometto citò una frase di un imperatore bizantino e venne linciato in mondovisione». In difesa della docente è stata lanciata una partecipatissima petizione da un gruppo di studiosi e studenti, specializzati in studi islamici, storia dell’arte e campi affini, capitanati da Christiane Gruber, professoressa di arte islamica all’Università del Michigan, secondo la quale studiare l’arte islamica senza l’immagine incriminata «sarebbe come non insegnare il David di Michelangelo»: un «pericoloso precedente» per le università di tutti gli Stati Uniti.

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