Mancava la battaglia sul salario minimo per completare il declino della Cgil

Rassegna ragionata dal web su: la paradossale campagna del sindacato di Landini con Pd e M5s per una misura che depotenzia la contrattazione, lo scombinato appoggio di Calenda, lo smarcamento di Renzi

Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, e il segretario del Pd, Elly Schlein (foto Ansa)

Su Linkiesta Mario Lavia scrive: «Calenda presenta con Conte, Fratoianni, Schlein e +Europa una proposta di legge per introdurre una soglia minima inderogabile di nove euro all’ora per i lavoratori».

Politico improvvisato e con scarsa capacità di visione generale, Carlo Calenda prosegue nel suo scombinato cammino: accordo con Enrico Letta, rottura con Letta, accordo con Matteo Renzi, rottura con Renzi, denuncia della subalternità di Elly Schlein ai 5 stelle, co-subalternità con la Schlein ai 5 stelle. Al di là della sua – pur presuntuosa – incapacità personale, si deve tener conto dei suoi legami via Luca Cordero di Montezemolo con quel capitalismo italiano ormai subalterno a certi ambienti francesi e di un suo rapporto con i settori industriali più prodianamente sensibili a Pechino: tutte realtà che ieri erano un punto di forza e oggi sono elemento di debolezza.

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Sul sito di Tgcom 24 si scrive: «Renzi si sfila e fa sapere che Italia viva non voterà il testo. Tra i 7 punti della proposta, il salario minimo è parametrato alla media dei contratti nazionali e la soglia è fissata a 9 euro l’ora».

Con la rottura dei liberali europei tra i fallimentari macroniani che guardano (malamente) a sinistra e quelli più anglofili di Mark Rutte che tendono ad allearsi ai conservatori, Renzi si trova nella necessità di darsi qualche nuova prospettiva politica. Così a occhio i suoi riferimenti sociali e soprattutto internazionali lo spingono a un rapporto con Giorgia Meloni, di cui non è possibile ancora prevedere gli esiti.

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Su Startmag Carlo Terzano scrive: «Continua la sintonia tra Confindustria e il governo. Sorprendente non solo per i temi, spesso lontani dagli inni al liberismo selvaggio e alla deregulation da sempre propugnati dagli imprenditori, su cui si registra una inedita identità di vedute con l’esecutivo, ma anche per il fronte comune rispetto a una Ue tornata matrigna e non pìù madre. Chi si aspettava che la rappresentanza del mondo imprenditoriale avrebbe mugugnato rispetto ai ritardi italiani sul Pnrr per entrare persino in fibrillazione di fronte alle prove muscolari che Palazzo Chigi ha deciso di ingaggiare con Bruxelles sul Mes, resterà deluso: Carlo Bonomi continua a seguire con apprezzamento le mosse di Giorgia Meloni».

Mentre i quotidiani legati a dinastie sempre più francesizzate scrivono della rivolta degli imprenditori contro la Meloni (in realtà c’è solo una divergenza sul “salario minimo”: un’associazione di imprenditori non può rifiutare il regalo che le si fa depotenziando la contrattazione nazionale e quella aziendale), Terzano racconta, mi pare realisticamente, di una tendenza del tutto contraria a quella stellantisianamente raccontata: di fatto oggi gli industriali che si erano rivolti a capitali cinesi si accorgono che credevano di aver fatto accordi con dei “colleghi” e invece si ritrovano in casa il Comitato centrale del Pc cinese, e quelli che erano molto dubbiosi dello statalismo della Meloni oggi ne colgono gli elementi positivi. E infine molti imprenditori hanno sperimentato come la pur indispensabile Unione Europea sia anche terreno di competizione e non solo “guida illuminata”

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Su Formiche Raffaele Bonanni scrive: «Il salario minimo continua ad essere al centro dell’attenzione, ma non i salari ordinari, quelli che riguardano 20 milioni di lavoratori, fanalino di coda tra i paesi Ocse. E comunque si ha più che l’impressione che le soluzioni che si propongono per i minimi salariali siano peggiori dei mali che si dice di voler curare. Sicuramente non sono in linea con le indicazioni europee, che per l’Italia, Danimarca, Austria, Svezia, Cipro raccomandano solo buone pratiche e non leggi, datosi che questi paesi sono unici nel vecchio continente a disporre di una contrattazione nazionale che supera la copertura dell’80 per cento dei lavoratori in ogni settore merceologico. Ai paesi sopra elencati si è riservata solo un’azione di buone pratiche rivolta ad una piccola porzione di lavoratori non coperta, per non soffocare con leggi particolari la contrattazione che copre la stragrande maggioranza, solo per occuparsi di una piccola porzione che comunque va salvaguardata in altro modo».

Una povera Cgil allo sbando perde giorno dopo giorno la sua storica capacità di guida dei lavoratori che pure nei periodi più duri con i Di Vittorio e i Novella ne faceva l’organizzazione più solida tra i lavoratori anche per la strenua difesa dell’autonomia della contrattazione da interventi dello Stato. Tra salario minimo e reddito di cittadinanza, lottando schizofrenicamente insieme contro l’austerità e a favore del Mes, i seguaci di Maurizio Landini finiscono con Elly Schlein e 5 stelle per essere il terzo socio di un’alleanza (accompagnata anche per certi tratti da un Calenda al guinzaglio) sempre meno influente. C’è il rischio che – anche per le posizioni rigidamente radicali (vedi maternità surrogata), indigeribili persino dai cattolici “più aperti”, della cosiddetta leader del Pd – la Cisl – che interloquisce con un ministero del Lavoro così segnato dalla lezione di Maurizio Sacconi, grande riformatore particolarmente amico di Bonanni – finisca per diventare un altro elemento, pur nella sua autonomia, che aiuta l’avvicinamento di Renzi al centrodestra al governo.

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