Anche ad Israele conviene imparare a distinguere

La reazione alle parole del cardinale Parolin è stata esagerata. Israele ha molte ragioni dalla sua parte, ma non può non chiedersi quali siano le conseguenze di cinque mesi di attacchi

Una donna a Rafah, Striscia di Gaza, 12 febbraio 2024 (Ansa)

Ieri l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede ha parzialmente corretto il tiro dopo il duro scontro con il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, le cui dichiarazioni erano state bollate come «deplorevoli». È stato un errore di traduzione dal comunicato redatto in inglese, ha chiarito in una nota l’Ambasciata d’Israele: «Nella traduzione in italiano è stata scelta la parola “deplorevole” che poteva anche essere tradotta in modo più preciso con “sfortunata”».

Sia come sia, è chiaro a tutti che i rapporti tra Santa Sede e Israele siano tesi, anche se lo stesso Parolin, l’indomani dell’attacco del 7 ottobre, ebbe parole inequivocabili contro Hamas. Anche in quest’ultima occasione, il segretario di Stato ha ribadito la «condanna netta e senza riserve di quanto avvenuto il 7 ottobre», la «condanna netta e senza riserve di ogni tipo di antisemitismo», ma «al tempo stesso anche una richiesta perché il diritto alla difesa di Israele, che è stato invocato per giustificare questa operazione, sia proporzionato. E certamente con 30 mila morti non lo è».

Il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin (Ansa)

Dopo il 7 ottobre

Che i rapporti tra ebraismo e cattolicesimo siano complicati, nonostante siano ormai passati più di cinquant’anni dalla Nostra Aetate, non lo scopriamo oggi. In particolare in Medio Oriente, dove i cristiani sono prevalentemente arabi, certe diffidenze – per usare un eufemismo – non sono mai state superate. E anche qui in Occidente, pur meno diffuse, le incomprensioni sono all’ordine del giorno.

Israele ha molte ragioni dalla sua parte. Prima fra tutte la consapevolezza – che invece chi giudica da lontano fatica ad avere – che il 7 ottobre abbia segnato uno spartiacque nella lotta contro gli islamisti. Hamas ha scelto di compiere non solo un attentato terroristico, ma di mandare un messaggio definitivo sia agli israeliani sia a tutti gli arabi che vivono dentro e fuori la Palestina: inizia una guerra che potrà concludersi solo con la scomparsa di uno dei due popoli, tertium non datur.

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Israele è così convinta che ad essere a repentaglio sia la sua stessa esistenza da non volere ascoltare nessuna voce alternativa. Come volete cercare un accordo con chi vuole solo distruggerci? Con chi usa i civili come scudi umani? Con chi, come fanno i miliziani di Hamas nei vicoli di Gaza, si presenta allo scontro con dei bambini in braccio? Con chi ha usato i soldi dell’Occidente per comprare armi e scavare tunnel sotto moschee e ospedali anziché creare occasioni di sviluppo per la popolazione?

La mosche di Al-Huda a Rafah, Striscia di Gaza, dopo i bombardamenti israeliani,

Palestinesi e terroristi di Hamas

Israele ha molte ragioni ed è certamente vero che stiamo parlando di uno scontro tra uno Stato che vive di procedure democratiche e una banda di terroristi la cui unica legge è la violenza. Così come è obiettivamente vero che le truppe dell’Idf, a differenza degli islamisti, quando attaccano cercano di preservare i civili. Ma è tutto maledettamente complicato e quindi dopo cinque mesi di guerra, dopo migliaia di morti (Hamas dice 30 mila, ma chissà), dopo stragi di bambini e di malati che sono innegabili, qualche domanda la si debba porre all’unico interlocutore ragionevole in campo: e questo interlocutore ragionevole può essere solo Israele.

Da una parte ci sono solo assassini disposti a tutto. Dall’altra una democrazia che dovrebbe riconoscere che non tutti i palestinesi sono terroristi di Hamas.

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Ovviamente, bisognerebbe anche far notare che, oltre a Israele, anche ad altri protagonisti della vicenda potrebbero essere rivolte domande altrettanto pressanti (ad esempio all’Egitto che schiera i carri armati sul confine). E poi c’è l’Iran, l’Arabia Saudita, il Qatar… eccetera; chi legge le corrispondenze da Gerusalemme di Giancarlo Giojelli e le analisi di Tempi sul Medio Oriente sa quanto complesso sia lo scenario.

Parolin non è Griffiths

Ma Israele dovrebbe riflettere sul fatto che anche chi non gli è pregiudizialmente ostile e riconosce il suo diritto all’esistenza e all’autodifesa (dagli Stati Uniti all’Italia) non può non chiedersi, come ha fatto il nostro ministro Antonio Tajani, se una tale reazione «non significhi fare quello che vuole Hamas, ovvero un isolamento di Israele. Noi vogliamo che Israele possa difendersi, ma ci sono preoccupazioni per i civili, sia per gli ostaggi israeliani che per palestinesi, usati da Hamas come scudi umani per poi provocare una reazione contro Israele».

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In queste ore il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari Martin Griffiths ha affermato in un’intervista a Sky News che «Hamas non è un gruppo terroristico, ma un movimento politico». Giustamente il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, si è indignato. Ecco, il cardinale Parolin non è Griffiths. Saper distinguere chi ti critica da chi ti vuole male, converrebbe anche a Israele.

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