Fa’ che Biden parli sempre più come il marchese del Grillo

Un candidato che quando vince proclama «il trionfo della democrazia» ha intenzioni precise e non propriamente “neutre”

Mio caro Malacoda, con il suo comizio finale Donald Trump ha dimostrato di essere il cretino che sospettavamo fosse e si è attirato addosso la damnatio memoriae che ora bollerà il suo quadriennio. Leggo qua e là articoli sulle “cose buone che ha fatto”, lodevoli quanto patetici tentativi di rivalutare una presidenza (che pur ha intrapreso singole iniziative utili, come riconosciutogli ancora in itinere da giornalisti non sospetti di piaggeria nei suoi confronti, vedi Federico Rampini di Repubblica) che si è buttata da sola nel cesso della storia dieci giorni prima dell’incoronazione del suo successore, Joseph Biden. Il quale, da parte sua, ha esordito così:

«Oggi celebriamo il trionfo non di un candidato, ma di una causa, la causa della democrazia. Il popolo, la volontà del popolo, è stata ascoltata, e la volontà del popolo è stata tenuta in conto. Abbiamo imparato ancora una volta che la democrazia è preziosa. La democrazia è fragile. E in questa ora, amici miei, la democrazia ha prevalso».

Si tratta del classico caso in cui l’enfasi prevale talmente sul contenuto da oscurarne totalmente il significato. Tutti battono le mani senza pensare a quello che stanno ascoltando. La stessa frase avrebbe potuto pronunciarla Trump, se i settantaquattro milioni di voti (74.223.744) che ha preso gli fossero bastati per fermarsi alla Casa Bianca.

Che cosa vuol dire che ha vinto la democrazia e non un candidato? È una sineddoche in cui si usa il tutto per definire una parte (politica) e una parte (politica) si impossessa del valore del tutto per definire se stessa.

In Italia, nei Settanta del secolo scorso lo facevano i centralinisti della sede nazionale del partito per cinquant’anni al governo, la Democrazia cristiana. Telefonavi e venivi così accolto: «Democraziaaa, dicaaa…». Succedeva anche, forse succede ancora, con l’ambasciata degli Stati Uniti d’America, soprattutto se il centralinista era romano: «Ambasciata, buongiorno». Capitava pure, sempre in quel decennio di accese lotte politiche, che i genitori di sinistra che presentavano liste alle elezioni studentesche per sedere in Consiglio di istituto si definissero “Genitori democratici”. Solo loro? Che poi in sé l’accostamento è un ossimoro: democratico è aggettivo che ha un senso nella vita pubblica, dove si ragiona per rappresentanza e maggioranza; in famiglia che vuol dire? Che si vota per il menù della cena? E a qualcuno hanno mai chiesto, i genitori democratici, il parere e il voto sulla sua venuta al mondo o sulla negazione della sua nascita?

Di questa presunta superiorità etica, valoriale e fors’anche antropologica, qualcosa è rimasto nel nome che gli eredi di quella gloriosa tradizione nata cento anni fa a Livorno hanno scelto per il loro partito: democratico, appunto. Ma tant’è, non voglio fare bassa filologia, ti volevo solo segnalare il singolare percorso per cui una decisione che ha radici politiche e ideologiche sia venuta trasformandosi in un tic assorbito inconsapevolmente dal linguaggio.

Insomma, caro nipote, non voglio dire che chi ha scelto quel nome avesse intenzioni malevole – democratico è pure il nome del partito dell’attuale presidente americano ed è, nel caso, un sinonimo di liberal – ma invece farti notare che in determinate circostanze può essere usato con intenzioni precise e non propriamente “neutre”, atteggiamento che mi è parso ravvisare proprio nel citato incipit del discorso del quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America.

Quest’uso della parola democrazia mi ricorda quanto ti scrissi nel 1942 spiegandoti «quella deliziosa situazione di un essere umano che dice cose con il proposito dichiarato di offendere, e che si lamenta quando l’altro si offende davvero».

Pronunciata con raffinatezza retorica, come si addice a un uomo con la cultura, l’esperienza politica e l’allure di Joe Biden, la frase «[con me] ha vinto la democrazia» ai settantaquattro milioni e rotti di elettori repubblicani potrebbe ricordare il versetto romanesco di un sonetto di Gioacchino Belli reso famoso e immortale da Alberto Sordi nel film Il marchese del Grillo: «Io so’ io, e vvoi nun zete un cazzo» (io sono io, e voi non siete un cazzo).

Detto questo, se sei stato tu il ghostwriter di Biden, complimenti!

Tuo affezionatissimo zio
Berlicche

Foto Ansa

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