E dire che Obama riteneva la Russia di Putin un soggetto trascurabile

Il presidente della Federazione russa Vladimir Putin (foto Ansa)

Su Dagospia si scrive: «“Le dichiarazioni di Lavrov”, ha accusato il ministro Yair Lapid, “sono sia imperdonabili ed oltraggiose, sia un terribile errore storico”».

Il ministro degli Eteri israeliano parlando delle imperdonabili parole del ministro degli Esteri russo sugli ebrei antisemiti sembra ricalcare la celebre frase di Charles-Maurice de Talleyrand: «È peggio di un crimine, è un errore». Se anche un diplomatico consumato come Sergej Lavrov si comporta così, il livello di disperazione a Mosca deve essere assai alto. E dunque pericoloso.

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Su Affaritaliani Klaus Davi dice: «Ma ora è chiaro a tutti che Vladimir Putin ha una visione strumentale e soprattutto revisionista dell’Olocausto e che il suo principale portavoce è tutt’altro che amico di Israele».

L’indignazione di Klaus Davi è perfettamente condivisibile. Per comprendere, ma non giustificare, il punto di vista di Mosca, va considerato come le milizie ucraine che sfilano con bandiere con svastica, predicando la sottomissione di qualche milione di russofoni che vivono nel Donbass e dintorni, abbiano suscitato parecchio nervosismo dalle parti del Cremlino (e una certa indifferenza nel resto dell’Occidente) . È evidente come l’Olocausto ebraico costituisca nelle forme terribili in cui è stato organizzato, un “unicum” nella storia mondiale e che le affermazioni lavroviane siano in questo senso «imperdonabili e oltraggiose». Non va scordato però come i nazisti mettessero nella loro scala di razze da eliminare dopo ebrei e zingari, gli slavi (se ne accorsero anche alcuni ucraini che avevano accolto le SS come liberatrici). E da questa impostazione hitleriana derivarono anche quei 25 milioni di morti circa (dei quali almeno 13 milioni di civili) patiti (e non scordati) dai russi nella Seconda Guerra mondiale.

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Su Open si scrive: «Papa Francesco è pronto a incontrare Vladimir Putin a Mosca per la pace in Ucraina. In un’intervista rilasciata al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana il Pontefice rivela tutti i tentativi fatti in questi mesi per fermare la guerra e rivela di essere pronto a volare a Mosca: “Il primo giorno di guerra ho chiamato il presidente ucraino Zelensky al telefono. Putin invece non l’ho chiamato. Ho voluto fare un gesto chiaro che tutto il mondo vedesse e per questo sono andato dall’ambasciatore russo. Ho chiesto che mi spiegassero e gli ho detto: per favore, fermatevi. Poi ho chiesto al cardinale Parolin, dopo venti giorni di guerra, di far arrivare a Putin il messaggio che io ero disposto ad arrivare a Mosca. Certo, era necessario che il leader russo concedesse qualche finestrina. Non abbiamo ancora avuto risposta e stiamo ancora insistendo. Anche se penso che Putin non possa e non voglia fare questo incontro in questo momento“».

Sostenere la resistenza ucraina e lavorare per la pace: due scelte che non devono entrare in contraddizione.

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Sul sito di Tgcom si scrive: «Mario Draghi, in vista del viaggio negli Usa, dice: “No escalation, ma non abbandoniamo l’Ucraina“».

Affermazioni sagge, non sempre accompagnate da un’adeguata iniziativa politica.

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Su Scenari economici Guido da Landriano scrive: «“Penso che al momento la comprensione non sia completa dal punto di vista delle questioni legali e delle implicazioni. Penso che sarebbe bene, almeno per qualche mese, permettere alle aziende di andare avanti e pagare in rubli, mentre comprendiamo il quadro giuridico e le implicazioni“, ha detto a Politico, aggiungendo che vuole “un pronunciamento rapido e molto chiaro dalla Commissione Europea”. Già quanto dice contraddistingue un po’ di confusione, ma almeno c’è la volontà di pagare le forniture. Pomeriggio ed allora si gira il disco sul “lato B” della posizione italiana, mostrato quando da Bruxelles hanno tirato le orecchie. “Il ministro Roberto Cingolani ha detto chiaramente che non ci saranno pagamenti in rubli“. Così la commissaria Ue all’Energia Simson, dopo il Consiglio Ue straordinario sull’energia. Il ministero aveva già smentito che Cingolani, in un’intervista, avesse aperto a un pagamento temporaneo del gas in rubli».

Non aver voluto mandare Mario Draghi al Quirinale e cercare poi una vera base politica per il governo nazionale, sta producendo una quantità di caos crescente, di cui bisognerebbe prendere atto.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Eugenio Capozzi scrive: «Cosa hanno in comune India, Turchia e Brasile? Sono paesi, ciascuno dal proprio punto di vista, vicini all’Occidente che hanno però anche rapporti economici e politici con la Russia, e sono decisi a non pregiudicarli. Sono paesi popolosi, giovani ed economicamente in crescita, convinti che un protrarsi della guerra non solo comporti gravi pericoli per la loro sicurezza, ma produca conseguenze economiche catastrofiche, e possa portare – anzi stia già portando – a una nuova recessione mondiale, dopo quella appena finita causata dalle restrizioni adottate contro il Covid. E infine, last but not least, vogliono a tutti i costi evitare che la contrapposizione frontale tra Stati Uniti e Russia rafforzi la posizione della Cina, risucchiandoli inesorabilmente verso l’egemonia di Pechino. È lampante, infatti, in merito alla guerra la differenza sostanziale tra l’atteggiamento di quei paesi e quello dell’Impero di mezzo, per nulla intenzionato al momento a intraprendere iniziative di pace, in quanto ritiene di poter trarre vantaggio dall’indebolimento della Russia ma anche degli occidentali».

Affrontare le questioni della sicurezza internazionale con un’impostazione unilateralista, senza puntare a trattati che garantiscano i principali soggetti presenti sulla scena internazionale, sta creando crescenti elementi di disordine globale che il far prevalere la retorica sulla politica realistica, non può aiutare a superare.

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Su Formiche Emanuele Rossi scrive: «Droni turchi potrebbero aver colpito in Iraq una milizia sciita filoiraniana legata alle Unità di Mobilitazione popolare. L’episodio sarebbe avvenuto vicino a Bashiqa un giorno dopo un attacco missilistico contro una postazione turca nel nord iracheno – Base Zelikan».

Nel disordine globale Ankara potrebbe riprendere un po’ di quell’iniziativa che ha già provocato tanti guai nella stagione obamiana delle primavere arabe.

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Su Formiche Ashley J. Tellis, senior fellow del Carnegie Endowement for International Peace, già membro del National Security Council americano, dice: «La Russia negli scorsi decenni ha “protetto” l’India sul piano internazionale, usando il suo potere di veto in sei occasioni al Consiglio di Sicurezza. Quando nel 1962 finisce la guerra sino-indiana, è la Russia a garantire le forniture militari […]. I Mig-21 consegnati allora da Mosca sono ancora in forza all’aeronautica indiana, e una gran parte degli equipaggiamenti attuali, si stima tra il 60 e il 70 per cento, è di fabbricazione russa. Ciò vuol dire un flusso continuo di pezzi di ricambio e munizioni per mantenere l’operatività delle proprie forze armate. Schierarsi apertamente contro vorrebbe dire non solo far avvicinare ancora di più la Russia alla Cina, ma rischiare di perdere la propria capacità militare».

L’idea obamiana (ma anche di John McCain) che la Russia sia un soggetto trascurabile sulla scena internazionale, si scontra con la realtà dei fatti.

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Su Dagospia si cita un articolo di Carlo Cambi per la Verità nel quale si scrive: «Sleepy Joe è scivolato su una chiazza di olio di palma. Sarà necessario che il presidente degli Stati Uniti e con lui i leader della Nato inizino a domandarsi se tutto il mondo sta davvero dalla loro parte. È la seconda volta che l’Occidente si trova spiazzato per una questione apparentemente banale: l’Indonesia, primo produttore al mondo di olio di palma, ha deciso di bloccare l’esportazione. Il mercato degli oli vegetali è sconvolto».

L’influenza americana s’indebolisce anche tra gli alleati più fedeli.

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